una tesi di Letteratura comparata
Tra scuole di pensiero e predisposizioni personali, l’arte della scrittura è sempre stata oggetto di dibattito, nei suoi come e cosa, nei perché e per chi. Qualcuno si dice incorruttibile sciasciano arricciando il naso di fronte a un D’Arrigo, qualcun altro tesse le lodi di Joyce e snobba Verga. C’è la querelle tra quelli de’ “l’arte per l’arte” e quelli dell’engagement. Chi nel proprio bilancio personale fa pendere più per la forma, chi per il contenuto. Ci sono gli amanti del barocco e quelli del minimalismo. Ma la questione che negli ultimi tempi ci ha fatto più riflettere ci è giunta dalla filosofia, e in particolare dalla tradizione orientale.
Nello specifico, a partire da un approfondimento del buddhismo zen e dalla concezione che in estremo Oriente (dall’India in poi) si ha della conoscenza, della coscienza e del rapporto tra quest’ultima e la realtà; ci siamo chiesti, in un’immaginaria tavola rotonda tra pensiero occidentale e quello orientale: cosa ne verrebbe fuori? E ancor più nello specifico: se la letteratura è la vita (parafrasando Carlo Bo) e il linguaggio si occupa di mostrare la realtà, di quale realtà parleremo e con quale linguaggio?
L’Occidente è sempre stato teatro di una cultura tendenzialmente individualista, dove ad essere esaltata è la soggettività della percezione. Da qui si è giunti facilmente ora al conflitto, ora all’accettazione della coesistenza delle pluralità. In Letteratura questo atteggiamento sottostante, implicito, è stato rappresentato da filoni come il post-modernismo e in generale il romanzo moderno d’inizio Novecento, insieme alle speculazioni filosofiche e psicologiche, per giungere alla conclusione che la realtà oggettiva, così com’è a prescindere dal filtro della coscienza umana, è inconoscibile. Il linguaggio, prodotto artificiale e strutturalmente parziale, contribuirebbe a distorcere – quando più quando meno – il contenuto che si vuole veicolare (che sia la descrizione di un piatto di pasta o di un sentimento).
Il linguaggio ne esce male, quando la parola viene percepita come ostacolo, illusione, insieme a una certa malinconia per essere stati estromessi dalla “somma verità”. Ma ne esce anche bene, quando si fa trampolino, nell’esaltazione della relatività prospettica, quando la realtà a cui si mira ha un’accezione diversa. Cos’è la realtà? O – pur non crollando nella schizofrenia – sarebbe più corretto dire “le” realtà, le tante facce di uno stesso diamante? Allora ampio spazio al monologo interiore, a interpretazioni e inferenze, alla prosa lirica.
A seconda dell’accezione di realtà che si vorrà adottare, ha più o meno senso essere oggettivi o soggettivi. Se essa è una e una sola, nell’hic et nunc, senza memoria né desiderio (come l’analista secondo Bion), e a lei si vuole giungere scostando il velo di Maya, saremo d’accordo con una narrativa che fa prevalere i fatti alle digressioni, e con Gertrude Stein quando scriveva “Rose is a rose is a rose is a rose”.
Se, al contrario, la realtà è qualcosa a cui ci si può accostare con kantiana consapevolezza di un invalicabile limite, qualcosa di così frastagliato e complesso che non può essere compreso in una sola inquadratura prospettica; se, inoltre, la realtà finisce per coincidere con la prospettiva stessa, nobilitandone i confini personalistici; saremo d’accordo con Marcel Proust che andava a nozze con il tempo bergsoniano e le libere associazioni.
In quest’ultimo caso, siamo figli della nostra tradizione culturale, alla ricerca di visioni preferenziali capaci di far luce con un colpo di genio sul nostro percorso di ricerca di senso. Nel primo caso, andiamo ancor più all’osso rispetto al Verismo e ci avviciniamo al pensiero orientale che guarda al rapporto soggetto-oggetto dell’Occidente come a un arrovellamento tra i merletti, preferendovi l’oggettività, spoglia del bisogno di conoscenza ulteriore rispetto a quella immediata.
Un esempio molto efficace lo porta Daisetz Taitaro Suzuki[1], chiamando in causa la poesia e accostando due sguardi: quello del passane giapponese che si emoziona per aver scorto all’improvviso un ramoscello, così com’è nel suo apparire, contro quello dello scienziato occidentale che vuole conoscerlo attraverso l’appropriazione, il possesso, la “vivisezione” (atteggiamento caratteristico della moderna scienza che tende a scindere soggetto e oggetto d’indagine), inconsapevole di snaturarne forse l’identità e il senso.
L’haiku è di Matsuo Basho (1644-94) e dice:
Quando io guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso alla siepe![2]
Dove il punto esclamativo è il giapponese rafforzativo kana, che esprime l’ammirazione che accompagna un aggettivo, un sostantivo o un avverbio. La sostanza della poesia è proprio nel suo culmine, nello stato d’animo dell’osservatore nell’immediatezza dell’esperienza.
Suzuki confronta questi versi con un componimento dell’inglese Alfred Tennyson (1809-92), simile nella tematica ma opposto nell’approccio:
Fiore che spunti dal muro screpolato
io ti colgo dalla fessura; –
ti tengo qui, la radice e tutto, nella mia mano,
piccolo fiore – ma se potrò capire
ciò che sei, la radice e tutto, e tutto in tutto,
saprò che cosa sono Dio e l’uomo.[3]
Ed è qui evidente il salto del pensiero occidentale, che vuole capire, vuole indagare, trovare il senso.
L’Orlando di Virginia Woolf si era post* il dilemma, alle prese con il suo La Quercia.
“E se la letteratura non è la Sposa e l’Amante della Verità, allora cos’è? (…) Perché dire Amante se si è già detto Sposa? (…)” Così cercava di dire che l’erba è verde e il cielo è azzurro (…) Ma alzando gli occhi vedeva invece che il cielo è come i veli caduti dai capelli di mille Madonne e che l’erba fluttua e si oscura come uno stuolo di ragazze in fuga dagli abbracci di satiri villosi in boschi incantati. “Parola mia (…) non credo che una cosa sia più vera dell’altra. Sono entrambe del tutto false”. E persa ogni speranza di riuscire a risolvere il problema di cosa sia la poesia e cosa sia la verità, cadeva in un profondo sconforto.
(Giulia Letizia Sottile)
[1] E. Fromm, D.T. Suzuki, R. De Martino, (1968), Psicoanalisi e buddhismo zen, Astrolabio, Roma.
[2] Yoku mireba / nazuna hana saku / kakine kana.
[3] Flower in the crannied wall, / I pluck you out of the crannies; – / Hold you here, root and all, in my hand / little flower – but if I could understand / what you are, root and all, and all in all, / I should know what God and man is.