1.Mi capita abbandonarmi a tentazioni di comprendere tutto. E in questi momenti mi posso anche vedere, in mezzo a quel tutto, mentre mi abbandono alla tentazione di comprendere tutto, e mi viene da ridere.

Vedo anche le analogie scommessa di comprensione ma forse solo grettezza catalogativa tra la mia tentazione e le altre comprensioni, come moltiplicate dalle riflessioni dentro un pozzo pieno di frammenti di specchi.

In una di queste riflessioni, analogie di tentazioni, vedo Jorge Luis Borges che, invitato, tentato, catturato, da un pazzo cugino dell’amata morta, che vaneggia di aver ricostruito buona parte del tutto in una cantina. E ora che vogliono trasformare il locale in pasticceria (il tutto-pasticcio), incredulo Jorge Luis vede l’Aleph:

Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, poiché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté…”

2. E va be’, si può sempre inciampare in un’analogia, ma, tira tira, il garbuglio si imbroglia, impiruglia, il gomitolo si agghimbola…

Vedo il riverbero su Aureliano Buendias in “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez:

“…per non lasciarsi turbare da alcuna tentazione del mondo, perché allora sapeva che nelle pergamene di Melquíades era scritto il suo destino. Le trovò intatte, […] come se fossero state scritte in spagnolo sotto lo splendore accecante del mezzogiorno, come a decifrarle a voce alta. Era la storia della famiglia, scritta da Melquiades perfino nei suoi particolari più triviali, con cent’anni di anticipo. L’aveva redatta in sanscrito, che era la sua lingua materna, e aveva cifrato i versi pari con la chiave privata dell’imperatore Augusto, e quelli dispari con chiavi militari lacedemoni. La protezione finale, che Aureliano cominciava a intravedere quando si era lasciato confondere dall’amore di Amaranta Ursula, si basava sul fatto che Melquíades non aveva ordinato i fatti nel tempo convenzionale degli uomini, ma che aveva concentrato un secolo di episodi quotidiani, di modo che tutti coesistessero in un istante. […] impaziente di conoscere la propria origine, Aureliano passò oltre […] in quel momento stava scoprendo i primi indizi del suo essere, in un nonno concupiscente che si lasciava trascinare dalla frivolità attraverso un altipiano allucinato, in cerca di una donna bella che non lo avrebbe fatto felice. Aureliano lo riconobbe, incalzò i sentieri occulti della sua discendenza, […] Macondo era già un pauroso vortice di polvere e macerie, centrifugato dalla collera dell’uragano biblico, quando Aureliano saltò undici pagine per non perder tempo con fatti fin troppo noti, e cominciò a decifrare l’istante che stava vivendo, e lo decifrava a mano a mano che lo viveva, profetizzando sé stesso nell’atto di decifrare l’ultima pagina delle pergamene, come se si stesse vedendo in uno specchio parlante. Allora saltò oltre per precorrere le predizioni e appurare la data e le circostanze della sua morte. Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che “la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.”

Anche Gabriel aveva visto l’Aleph? Almeno quel quasi Aleph che è la novella di Jorge Luis?

3. Avrei fatto bene a seguire il consiglio di Montale:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari […]

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti […]

ma non facendolo non evitai di incappare, come prima di me aveva fatto Athanasius Kircher nel Libro del Tutto, il libro di Enoch, frammento biblico decaduto apocrifo. Athanasius era forse un impostore, un antesignano di cui l’abate Vella poteva andar fiero, ma che ci posso fare se gli impostori — scrittori, sciamani, dei — mi intrigano, nonostante la denuncia illuminata di cui Sciascia fece la missione della vita? Imbroglia qua e imbroglia là, magari la realtà la creano. E chissà se Leonardo conoscesse Kircher nel creare Vella?

Fatto sta che dopo aver consultato qualche frammento del “Libro” ritrovato in un monastero di Messina, effettivamente produzione scientifica del Kircher si moltiplicò in tutte le direzioni, come diffrazione da diamante mutiprismico. Geologia, biologia, virologia, magnetismo, elettricità, lanterna magica e cinema, automi, megafono: proprio il modello di Melchìades nella solitudine dei cent’anni di Macondo. Non disdegnò neppure la decodifica dei geroglifici, interpretati nel loro significato magico. Peccato che gli studi di Champollion ne mostrarono la natura fonetica smentendo Athanasius (ma fino a che punto?) e facendo persino sospettare che il libro del monastero di messina non esistesse nemmeno. E invece i ritrovamenti di Kumran confermarono l’esistenza e la congruenza dei frammenti rinvenuti da Kircher a Messina, e magari nel monastero c’era pure dell’altro.

Come meglio non avrebbe fatto Umberto Eco, appena Kircher finì il suo lavoro la biblioteca del monastero fu proibita, poi traslocata, poi incamerata, e del manoscritto non restò quasi neanche memoria, solo qualche legenda stereotipata di furti giudei…

 

4. Comunque, quello che abbiamo del Libro di Enoch non giustifica l’infatuazione che si era sparsa quando se ne conoscevano solo frammenti, e che ha portato a definirlo “Il libro del tutto”, dalla cui suggestione nasce forse l’Aleph di Jorge Luis e di Melchìades a Macondo.

Ma nessuna v’è certezza che il tutto che abbiamo rinvenuto sia ancora un frammento, di un frammento di un frammento… E che Ockam usi il suo rasoio per tagliarsi la barba una volta tanto!

Ci sono pure di quelli che vedono nello sconnesso Libro di Enoch, brandelli di una rivelazione aliena, e chissà se Franco Battiato a questo si riferisse:

Che siamo angeli caduti in terra dall’eterno
Senza più memoria: per secoli, per secoli
Fino a completa guarigione

D’altronde un frammento è bello perché si può completare a piacimento, come si poteva fare nel concorso della Settimana enigmistica dove ti proponevano un tratto e ognuno poteva mandare la sua ipotesi di vignetta, integrazione sognificata a significato, costruita a partire da quello scarabocchio: con questo mio scritto mi iscrivo al concorso.