«[…] Ho udito la chiave
girare sulla porta una volta, girare soltanto una volta
noi pensiamo alla chiave, ognuno nella propria prigione
e pensando alla chiave ciascuno conferma una prigione
»

– Ciò che il tuono disse, La terra desolata, Thomas S. Eliot

L’orologio aveva le lancette puntate sulle sette della sera. Il sole stava per tramontare. Un pittore senza volto era immerso nei suoi pensieri mentre dipingeva il mare. Adesso l’acqua aveva un colore intenso, sembrava che fosse prossima ad andare in fiamme. Le persone continuavano comunque ad affollare la spiaggia: gli ombrelloni erano ancora aperti, le sdraio ancora occupate dalle stuoie e la gente ancora in acqua per rinfrescarsi dall’afosa giornata che stava per spirare. I pesci passavano tra i piedi dei bagnanti come macchine in galleria. Dietro i lidi, un intero paese stava per scegliere di vivere diversamente la sua ora d’oro. Alcuni, che già avevano lasciato la spiaggia e avevano indossato abiti più eleganti, dopo essersi tolti di dosso costume e salsedine, avevano già occupato dei tavolini. Dall’arancione del sole si passava velocemente all’arancione dell’Aperol Spritz. I passanti del lungo mare si ritrovavano le orecchie sovraffollate da una varietà di suoni e rumori: dal mare che si adagiava delicatamente sulla battigia ai calici che si scontravano in un brindisi, e ancora le urla dei bambini, il crunch delle patatine e delle arachidi, la musica dei locali. Il centro del paese era in fervore. C’era un via vai incessante dai negozi del centro, le vie pullulavano di persone in cerca di un ristorante presso cui cenare. La specialità locale, come ogni paese di mare che si rispetti, era il pesce. Diversi ristoranti proponevano diversi piatti a base di tonno. Ma l’offerta non finiva qui: fritti di paranza, gambero rosso e pescato del giorno. Non mancavano nemmeno diverse tipologie di primi piatti preparati con molluschi e crostacei.

 

Passeggiavo sul lungomare in cerca di un tavolino dove potermi sedere per leggere e bere qualcosa, finì che non trovai nulla per la successiva ora di camminata. Decisi così di giocare d’anticipo sulla cena ed andare al ristorante che avevo deciso di provare. Era un luogo molto elegante, con l’ingresso che dava direttamente sulla strada. Dentro, i tavoli ben apparecchiati riempivano i versanti della sala: sul lato destro era appeso un quadro raffigurante un albatro, sul sinistro, invece, pendevano due teste di moro. Chiesi se fosse disponibile un tavolo per uno. Il cameriere mi sorrise, dicendomi di accomodarmi in un tavolo apparecchiato per due. Tolse le posate in più e mi portò il menù. Mentre ero intento a scegliere cosa ordinare, con la coda dell’occhio, vidi entrare una donna vestita di nero.

 

Non appena il cameriere raccolse l’ordinazione, nonostante fosse estate, iniziai a sentire un lieve freddo. Poteva essere l’aria condizionata. Realizzai poco dopo che il locale dove stavo cenando ne era sprovvisto. Mi voltai, sussurrando un brrr, in cerca di uno sguardo d’assenso, non potevo essere l’unico ad avere freddo. Ad un tratto, la donna che avevo visto prima disse “c’è freddo, non è vero?”. Annuii con un sorriso. “Come mai, secondo lei? Siamo pur sempre in agosto”. “Vivere la bella stagione non implica necessariamente che il giorno sia sempre splendido e caldo, può sempre capitare di beccare un acquazzone”. Stranito, mi limitai a sorridere e mi rigirai. Arrivò l’antipasto. Sembrava che nel locale fossimo rimasti solo io e la donna alle mie spalle. Dalla cucina non sembrava provenire rumore alcuno, da fuori si intravedevano solo le luci dei lampioni ed i camerieri sembravano essere improvvisamente scomparsi. “Giusto in tempo per servirmi” pensai. il mio piatto adesso era vuoto. Avevo divorato con gusto il polpo che mi avevano servito, la crema di patate d’accompagnamento si sposava in maniera sublime con quella carne dal sapore così delicato. “Sei rimasto solo?” chiese la donna con cui avevo da poco scambiato qualche battuta. “Oggi ho scelto di passare del tempo con i miei pensieri. Visto che ogni notte riaffiorano sempre più forti, meglio combatterli con un buon pasto e qualche bicchiere di vino”. Ella iniziò a scrutarmi, senza rispondere subito. “Hai ancora freddo, non è vero?” “Come aveva capito che avevo avuto un altro brivido?” pensai. Visto che la portata successiva tardava ad arrivare, mi girai per parlare meglio con la mia interlocutrice anonima.

 

La osservai con maggiore attenzione. Aveva un vestito nero, la stoffa dell’abito le scivolava sulla pelle non troppo scura. I suoi occhi erano bui come la notte che in dicembre accorcia il giorno, i suoi capelli altrettanto lunghi.  Non era il classico profilo mediterraneo che mi sarei aspettato di trovare, poteva provenire da qualsiasi parte del mondo. Alle mani aveva degli anelli che brillavano se irradiati dalle lampade del locale, le unghie erano smaltate di nero ed ai piedi portava dei sandali bassi. Dal collo le pendeva una collana di madre perla che spiccava intorno a tutto quel nero. “Mi scusi – chiesi, preso dalla timidezza di fare conversazione con un soggetto così particolare – ci siamo già visti altrove? Mi sembra che lei abbia un volto già conosciuto”. “Finalmente l’hai capito” rispose, “ti ricordi il mio nome?”. La mia risposta non poté che essere negativa. Giocavo nervosamente con una pellicina che avevo sull’indice destro, la tirai troppo ed iniziò a sanguinare. Diventai ancora più nervoso, così, preso dal panico, usai il tovagliolo che avevo al tavolo per evitare di sporcarmi e mi bagnai le labbra con un sorso di vino bianco. “Davvero non te lo ricordi? Non ci posso credere! Eppure, da non troppo tempo, ho avuto il piacere di fare la conoscenza di diverse persone a te vicine, immagino che però questi non ti abbiano potuto parlare di me”. “Mentirei se le dicessi di ricordare. So solo che la conosco. Non si offenda, potrebbe ricordarmi il suo nome?” “Ma certo amico fragile, a patto che tu ti tranquillizzi. Stiamo solo parlando, il tuo dito non ha colpe”. Soffrii molto l’esser ripreso su un vizio che ancora non ero riuscito a togliermi, ma ormai era andata così. “Il mio nome non puoi saperlo, neanch’io so qual è il migliore, so di averne tanti, tutti tristi”. Adesso ero più confuso di prima. “L’inverno ci tenne al caldo, coprendo la terra di neve immemore, nutrendo una piccola vita con tuberi secchi”. All’improvviso recitò questo verso. Mi guardò ancora più nel profondo, come se volesse scrutarmi dentro. “La riconosci? E’ la sepoltura dei morti”. Come avevo fatto a non pensarci? Per quanto potesse sembrare assurdo, stavo parlando con colei che scrive la parola fine su ogni sorte, incredibilmente stavo parlando con la morte.

 

“Io ti conosco da quando sei piccolo. Ti ho incontrato ch’eri alto poco più di un metro, che non capivi dove andasse la gente che si rifiutava d’aprire ancora gli occhi e di tornare per un saluto veloce. Ti ho rivisto, di sfuggita, agli albori della tua adolescenza, quand’eri troppo stupido per capire che in realtà fossi più vicina di quanto pensassi. T’ho fatto capire ch’esistessi davvero sulla via dei vent’anni, quando a distanza d’un anno mi portai via ambedue le radici che credevi impossibile sradicare. Da quel giorno sono diventata la tua ossessione”. “Io non ho paura di morire”. “Lo so, amico fragile, tu hai paura della morte, ma non della tua, di quella degli altri, perché il tuo incubo peggiore è restare solo sul fiume a vedere gli altri passare”. “Credevo che fosse un mio segreto”. “Un segreto che non sfugge al buio della notte e ad i sogni che porta con sé: io vivo anche lì, nella tua mente. M’alimenti di giorno in giorno. Una volta hai sognato che anche la mia persona fosse soggetta a delle leggi, perché il tuo desiderio di controllo potesse finalmente soggiogare la tua più grande paura. Hai sognato che ad un tuo caro prossimo a salutarti con l’eterno addio fosse concesso un ultimo anno di vita, dodici mesi aggiuntivi alla sua storia, corredati da un nefasto preavviso. Cos’hai ottenuto? Ti sei svegliato. Hai sognato che l’imminente morte d’un altro tuo caro si fosse festeggiata con un banchetto, e non con una triste nenia. Cos’hai ottenuto? La fame”.

 

Guardai la nera signora. Non era come i registi ed i poeti erano soliti dipingerla. Era diversa. Come faceva a sapere cosa avessi sognato notti e notti fa? Viveva davvero nel buio? “La morte è viva” dissi ridendo, dopo che questi pensieri m’avevano affollato la testa. “Ebbene sì, perché io non posso essere viva, se qui molta gente che ancora cammina è in realtà già morta? Tu stesso, tante volte, hai pensato ch’io potessi manifestarmi in diverse forme. Amico mio, io non sono solo la conseguenza di un cuore che smette di battere, sono anche l’aria che sopraggiunge quando qualcuno vede un proprio sogno crollare, sono il peso nel petto che si sente quando ciò ch’è iniziato come bello finisce come brutto, io sono anche il lutto. E come tale posso essere superato. Nessuno mi sfugge, vero, ma chi resta può accettare di convivere con me”. “Hai ragione, penso spesso che la parola “morte” se accostata al semplice decesso possa essere banalizzata. Mi conosci meglio di tanti altri”. “Perché cammino accanto a te, non te lo scordare”.

 

Forse assetata dalla nostra conversazione, si fermò per bere un sorso di vino. Poi disse “Gentile o Giudeo, o tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento pensa a Phlebas che un tempo era bello, e alto, al pari di te”. Era Morte per Acqua, “ancora Eliot pensai”. “Perché mi dici questo?” “Dovresti cogliere la sfumatura ch’io voglio trasmetterti”. “Penso solo ad un marinaio morto”. “Perché non pensi a ciò che c’è dopo?” “Per il marinaio? Non c’è nulla”. “La pace”. Non capii cosa volesse insegnarmi, ma probabilmente, vista l’eccezionalità di questo incontro, non l’avrei mai dimenticato. Era un ricordo destinato a non lasciarmi mai, avrei potuto ripensarci in futuro. Che fossero allora i ricordi il segreto? “Gentile signora, io la ringrazio. M’ha fatto capire che chi muore non scompare, almeno finché esiste qualcun altro pronto a tenerne vivo il ricordo in qualsivoglia modo. Eppure, per quanto ciò mi faccia sentire meno stupido ai suoi occhi, non mi fa sentire meno solo, dato che i ricordi possono far sorridere, ma non abbracciare”. “E’ comunque un passo avanti”, sussurrò girandosi. Ed io feci lo stesso.

 

Accadde poi che mi pentii d’essermi congedato così, avevo altro da dire. Allora mi rigirai, ma non trovai nessuno. Intanto, era arrivata la mia prossima portata. Era d’una bontà unica, si sentiva il mare, le note acide, la parte croccante: il miglior tonno in crosta che io avessi mai mangiato. Eppure, non era riuscito a saziarmi. Io avevo una fame diversa, implacabile ed atavica, a cui solo risposte che non avrei mai avuto avrebbe potuto porre un argine.

Francesco Raguni