Il dramma delle violenza contro le donne raccontato dall’autrice Fabiola Marsana attraverso il tema del declino della comunicazione verbale e dell’uso delle parole nei contesti familiari.
Il racconto mette in evidenza uno dei paradossi dei tempi che stiamo vivendo : l’incapacità di comunicare verbalmente nonostante la bulimica comunicazione offerta dai social network a cui viene demandata la condivisione e la spettacolarizzazione anche dei sentimenti più intimi , con conseguenze spesso dirompenti e irreparabili
Alle parole, fonte di violenza , l’autrice pone come contrappunto quelle capaci di curare che consentono alla protagonista di sentirsi protetta e fare ritorno verso sé stessa, ove potersi ritrovare , libera dalle finzioni e dalle bugie .
L’ennesima lite, la porta che sbatte, le urla che rimbombano dentro quella casa
semiarredata, asettica e ancora poco vissuta. Anche in questa occasione parole ne erano volate tante, tutte intrise di rabbia, risentimento e dolore.
Quante parole, urlate e soffocate dal tempo, oramai seppellite in altre mura domestiche, abbandonate da qualche mese con l‘illusione che qualcosa potesse cambiare.
Dieci anni di convivenza erano stati lunghi, nel frattempo erano arrivati anche due figli e così Giulia e Carlo avevano raggiunto la soglia dei quarant’anni.
Gli impegni incalzanti di lavoro, la routine quotidiana dettata dalle esigenze pratiche della famiglia man mano li aveva divorati nella morsa del silenzio, quella che si alimenta con l’indifferenza e si nutre di malintesi. La loro era una convivenza infelice, deteriorata, dove non vi era più spazio per le belle parole e per la comunicazione verbale, per lo più governata dalle esigenze pratiche, scolastiche ed extra scolastiche dei figli.
L’uso delle parole era stato oramai demandato ai dispositivi elettronici.
Tutto era ben organizzato e visibile sul calendario condiviso di Google, aggiornato
tempestivamente per ogni nuova esigenza.
Vi era poi la chat di whatsapp, ove far confluire messaggi, in prevalenza audio, perché anche scrivere era diventato faticoso in quelle giornate frenetiche e logore, in cui il tempo non basta mai e le parole appaiono come qualcosa di superfluo, sovrabbondante e noioso.
Giulia e Carlo ne erano consapevoli, la loro relazione era arrivata al capolinea e appariva molto remota la possibilità di recuperarla.
Dopo il tradimento di Carlo niente era e sarebbe stato più come prima, a poco erano valsi la terapia di coppia e i percorsi individuali, i pianti, gli abbracci e le promesse di cambiamento.
Le giornate trascorse cercando di far finta che nulla fosse accaduto per tutelare quella famiglia voluta e desiderata da entrambi, erano state deleterie per Giulia.
Soffocare il dolore e convincersi che ciò potesse essere possibile l’aveva indotta a
corazzarsi per proteggersi da eventuali ulteriori attacchi al suo cuore, già estremamente ferito.
Ne era certa, non avrebbe più riacquisito la fiducia e la stima in quell’uomo che aveva amato e a cui si sentiva ancora sentimentalmente legata nonostante tutto.
Ma quella dipendenza sentimentale non era sana, perché non alimentava nulla di buono intrappolandola sempre di più in un’apparente stabilità.
Si erano ripromessi di non litigare più davanti ai loro figli per evitare di coinvolgerli e di arrecare loro ulteriori traumi. Erano stati anni difficili, in cui anche la Pandemia aveva concorso ad acuire quel conflitto latente, ad aumentare le distanze in quell’ambiente domestico dagli spazi troppo ravvicinati.
L’isolamento, lo smart working, la scuola digitale, le ansie dei contagi e tutto il resto, erano stati gli ingredienti di un cocktail esplosivo, di quelli che creano assuefazione e trascinano in una dimensione di torpore e senza ritorno.
Carlo aveva anche iniziato a bere, inizialmente quasi per gioco: prima gli aperitivi virtuali, poi il vino ai pasti, il super alcolico dopo cena, fino a diventare consuetudine e a creare dipendenza.
Giulia aveva replicato rifugiandosi nell’allenamento fisco, anche domestico, unico concesso in tempi di lockdown, ritenendo potesse essere l’antidoto più valido a quel vizio deplorevole.
La comunicazione verbale così si era sempre più diradata e quelle poche volte in cui si manifestava era nelle forme più violente, quelle capaci soltanto di ferire e di lasciare cicatrici profonde, pronte a sanguinare in qualsiasi momento.
L’idea di cambiare casa, emersa anche in terapia, era apparsa come un piacevole miraggio; l’unico che potesse consentire di poter sfuggire a quella trappola di silenzio che da troppo tempo li stava logorando.
Soprattutto per il bene dei figli avevano deciso di ricominciare in un posto nuovo, pensando che questa potesse essere l’unica soluzione percorribile per una rinnovata esistenza.
Ma niente può essere programmato e programmabile quando a dettare le parole sono i sentimenti feriti e non un dispositivo elettronico che risponde ad input meccanici.
Poiché le parole e i pensieri, seppur a volte apparentemente istintivi, vengono sempre partorite dopo periodi di gestazione. Con il tempo si sedimentano, come il magma vulcanico, capace di poter esplodere in irrimediabili parossismi in qualsiasi momento.
Quel maledetto pomeriggio, dopo aver staccato la connessione dal pc per l’ennesima giornata in smart, c’erano ancora molte cose da fare.
Il telefono, appoggiato sulla scrivania di Carlo improvvisamente squilla, ma lui si è
momentaneamente allontanato e non lo ha preso con sé come di consueto.
Giulia, si avvicina e fa in tempo a vedere lo schermo prima che vada in standby e a leggere il contenuto dei messaggi dall’applicazione di whatsapp.
Il contatto da cui provengono è palesemente di fantasia: “Logos” aveva scritto che lo aspettava per allenarsi insieme, che gli mancava da morire e poi salutato con una sfilza di “emoticon” a forma di faccine con bacio e cuori di colore rosso.
Carlo, questa volta non aveva fatto in tempo a nascondere la sua chat segreta; Giulia lo guarda attonita trattenendo il suo cellulare con forza, mentre lui tenta di riprenderlo, ma lei forse vuole poter dimostrare la sua determinazione e la sua capacità di dominare quel diabolico oggetto che, per la seconda volta, è stato testimone e probabilmente anche strumento del tradimento.
Si rompe improvvisamente quel silenzio malato che aveva segnato un’apparente tregua e così, anche quella nuova dimora, diventa spettatrice di un conflitto irrisolto.
Le parole rimbalzano e si diffondono al piano di sopra, trasportate da un eco assordante e da una forza dirompente che neppure il volume della radio digitale riesce ad attutire.
La ferita dell’anima si riapre e il cuore inizia nuovamente a sanguinare.
Giulia è sopraffatta dal dolore e sente di non riuscire più a trovare altre parole per esprimere la rabbia. Si accascia sul divano, Carlo sbatte la porta ed esce di casa abbandonandola nuovamente alla sua sofferenza.
Vorrebbe piangere per sfogarsi ma neppure le lacrime le vengono in soccorso,
probabilmente perché ha già pianto troppo o perché non è più tempo di piangere.
Proprio in quel momento viene trasmessa alla radio la canzone di Ligabue “Ho perso le parole” o chissà forse è la sua mente a rievocarla per il contenuto affine ai suoi pensieri.
Giulia ha perso le parole, eppure sa bene quello che vorrebbe dire, ma quelle parole non le servono più, perché non vale più la pena di insistere quando non c’è più nessuno capace di ascoltarle e soprattutto non le merita.
Pensa sia giunto finalmente il tempo di abbandonare la via del dolore e della rabbia per farsi curare dalle parole, quelle seppellite nelle anse della sua intimità, così decide di affidarsi alla scrittura e fare ritorno verso sé stessa, verso la sua unica casa, ove potersi ritrovare e sentire veramente al sicuro, libera dalle bugie e dalle finzioni.