«E te li senti dentro quei legami,
i riti antichi e i miti del passato
e te li senti dentro come mani,
ma non comprendi più il significato
»

Radici, Francesco Guccini

In Sicilia per Natale nevica davvero raramente, non ricordo un Natale con le strade imbiancate e con i fiocchi che cadono giù, lievi, dal cielo d’inverno. Certo, qualche paese dell’entroterra fa certamente eccezione, lì, anzi, nevica più volte durante l’inverno, non solo la notte del 24 dicembre. Il Natale in Sicilia, comunque, è tutt’altra cosa rispetto ad una semplice nevicata. E’ riunirsi tutti intorno ad un tavolo ed affogare nel cibo, nel vino e nel gioco, almeno per una sera, le proprie collere ed angosce. Taluni potrebbero definirla ipocrisia, talaltri codardia, ma chi non si lega alla schiera dei detrattori della festa di Natale sicuramente non avrà cura di queste dietrologie e vedrà nella sera del 24 un’oasi in cui fermarsi una volta l’anno e in cui poter riprendere fiato da quella grande traversata nel deserto che è la vita di ogni giorno.

Ogni Vigilia di Natale, quasi tutta la mia famiglia si ritrovava la sera in via Sottotenente Scalia, a San Giovanni La Punta. Già nella prime ore della sera, la piazza era semideserta. Non dico totalmente, anche perché a fornirle comunque una parvenza di vita ci pensava il presepe a grandezza d’uomo, che veniva allestito all’ombra della chiesa madre. Tutti i negozi erano chiusi, cinema compreso. Il Natale del Signore, così come rubricato sul calendario, arrivava per tutti, ma per molti restava una semplice data rossa sul calendario. I miei Natali passati erano tutti lì, in quella via buia e deserta, fredda, in cui spesso soffiava un vento freddo, una volta che la cattiva stagione bussava alle porte dei suoi abitanti. E con dicembre, oltre il freddo, anche le tradizioni iniziavano a presentarsi per chiedere il loro consueto adempimento. Giungeva quindi il momento di pensare ai regali da fare, ma soprattutto – parlando di tradizioni più strette – arriva l’ora della scacciata e della tombola.

Era l’odore di questa leccornia il principale condimento dei miei ricordi. Già dai primi gradini del palazzo e fino al terzo piano, il palazzo era un insieme di profumi che difficilmente si potevano percepire in altri momenti dell’anno. Ad una certa ora della sera della Vigilia arrivavano tutti suoni di citofono attesi: gli zii, i cugini e pure io, seguito da mamma e papà. Molti, prima che cenone fosse pronto per essere consumato, si distribuivano tra il soggiorno e la cucina. La mamma e la zia andavano spesso ad aiutare la nonna, gli altri restavano con il nonno a guardare la televisione e parlare del più e del meno. Per un paio di anni su un tavolino del soggiorno e poi – dopo il crollo di questo – all’interno di uno dei mobili della stanza vi stava il presepe. In casa, i nonni – da che io ricordi – non erano soliti allestire il consueto albero di Natale; facevano solo il presepe al cui interno vi erano veri e propri pezzi di storia. I re magi a dorso di cammello, ad esempio, avevano più di cento anni. Erano stati acquistati dal nonno di mia nonna, da questi erano passati al padre di mia nonna ed infine erano giunti nelle sue mani quando ancora le rughe non le avevano iniziato a scavare il viso. Una tradizione centenaria fatta di terracotta restava lì in balia delle mani di chi, con attenzione, avrebbe dovuto collocarli nel loro posto naturale di quella favola in movimento che è il presepe. La nonna aspettava sempre me per farlo, conservava tutti i pastori in una scatola e una volta giunto quel momento dell’anno la tirava fuori ed insieme sistemavamo il tutto: prima veniva la grotta, con il bambinello coperto dal cotone, poi magi e solo dopo i pastori, le pecore, gli angeli e la stella cometa. Ciò che per alcuni era un semplice racconto, per altri molto di più, poteva così prendere forma. Mia nonna mi prometteva sempre quei magi in eredità; l’unico augurio che ogni natale ero solito farmi in cuor mio era che quel passaggio di consegne avvenisse il più tardi possibile.

Lungo il corridoio si creava spesso una via vai di gente. Dalla stanzetta degli ospiti, che a me avevano insegnato a chiamare con l’appellativo di ‘camerino’, le scacciate, una volta giunta l’ora d cena, venivano portate in cucina per essere infornate. La nonna era solita avvolgerle in coperte di lana per farle riposare sin dal primo momento successivo alla loro preparazione. Spesso il forno faceva i capricci e non dava subito il gas necessario per potersi accendere. Che fossero broccoli, salsiccia o patate, la sua scacciata era inimitabile, non solo come odore, ma anche come sapore. Ne ho assaggiate tante in vita mia, ma mai nessuna è stata solo lontanamente capace di tenere testa alla sua. Sarà forse colpa di un ingrediente segreto rimasto tale a vita. Sarà che i ricordi possono ergere a modello anche una pietanza modesta, per quanto ricca, e dunque renderla unica nel suo genere. C’era poi il baccalà fritto, un pesce che io, nonostante il passare degli anni ed il maturare dei miei gusti culinari, non volli mangiare mai. Già soltanto l’odore mi dava la nausea. E allora per me ecco che veniva preparato qualcos’altro, giusto per non lasciarmi a guardare gli altri mangiare. Ma era davvero importante cosa vi fosse in tavola? Era decisamente più importante chi fosse seduto a quella tavola rotonda fatta di legno e tempo andato. Anni addietro il dubbio sulla presenza imperitura della gente che prendeva parte a quella tavolata era solo un problema futuro. Il problema del futuro, tuttavia, è l’angoscia che questo porta con sé, che aumenta quando l’oggi inizia a scorrere più velocemente e incomincia a tendere al domani. E il futuro reca con sé anche la parola fine, che riguardi un rapporto od una vita. La morte non è argomento da tavola, tantomeno cruccio che un bambino porta con sé, tuttavia è insita in ogni essere umano. Io, tuttavia, non temo la mia morte, temo quella degli altri e dunque indirettamente ammetto, in maniera impavida, il mio terrore della solitudine.

I ricordi, comunque, vanno oltre il cibo o le paure, questo è certo. Dopocena, io e la nonna insistevamo per aspettare la mezzanotte facendo qualche gioco tipico delle festività natalizie. Di norma le carte andavano in secondo piano, a loro discapito veniva preferita la tombola. La stessa tombola a cui la nonna, a volte, sceglieva di giocare persino quando eravamo noi due soli e fuori fosse agosto. La stessa che aveva il sacchetto bucato, a cui mancava qualche numero che era stato sostituto con altri gettoni o pezzetti di cartone su cui era scritta la cifra mancante. Talvolta non era ben accetta questa idea di gioco, ma alla fine la nonna riusciva a convincere tutti perché sapeva che era il modo giusto per farmi felice. Papà era spesso il vincitore, aveva una fortuna superiore a quella degli altri probabilmente. Dopo qualche regalo per far sì che la mezzanotte trasformasse il 24 in 25, alcuni andavano alla messa di mezzanotte, altri invece – tra cui me e la mia famiglia – tornavamo a casa. Ero affascinato da quella funzione notturna, ma non sono mai andato mai oltre questa semplice curiosità. Probabilmente a causa dell’imposizione e dell’indottrinamento dovuto al catechismo non sono mai stato capace di apprezzare la celebrazione liturgica. Con il passare degli anni e lo studio della filosofia, inoltre, ho finito per non apprezzare nemmeno la religione cattolica stessa, anzi, ho scelto di distaccarmene totalmente.

Ma con il passare del tempo non cambiai solo io, cambiarono anche quei Natali che si ripetevano con tanta costanza. E pensare che, per un attimo, mi ero illuso potessero durare ancora a lungo. Mi sbagliavo. La morte stava per consegnare a la loro ultima ora vita alla nonna ed al nonno. L’ultimo Natale in cui eravamo tutti insieme risale a meno di un lustro fa. Eravamo solo in cinque, perché gli zii – quella sera – erano ospiti di un altro cenone. La nonna a gennaio avrebbe dovuto operarsi, era preoccupata e provai a rassicurarla sul fronte della fede, ma furono solo parole al vento, capaci di riecheggiarmi a vita in testa dal giorno in cui proprio queste furono rese effettivamente vane e puramente illusorie dalla dipartita postoperatoria della nonna. Il nonno, poi, passò soltanto un altro Natale senza sua moglie. Giunta l’estate, arrivò anche il suo momento. E così il dicembre successivo di tutte queste tradizioni non restò praticamente nulla. Se ne erano andati i sapori, le persone e persino la casa che faceva da luogo di ritrovo per tutta la famiglia. Non che adesso non ci si riunisca per celebrare il Natale sia chiaro, ma è come se fossimo orfani di un momento che non tornerà mai più, che nessun altro pasto, gioco o luogo sarà capace di emulare nella forma e nella sostanza.

Francesco Raguni