NUDO CONTRO NUDO di Fabrizio Ferreri

collana Centovele

prefazione di Emilia Musumeci

(…)La sofferenza non è mai urlata. È un lamento semmai, impercettibile, un «boccheggio» o «colpevole sonnolenza», come in un lucido e malato incubo, ogni dettaglio è cancellato, complice anche la notte e il sonno che instilla oblio momentaneo e che appesantendo le palpebre, intorpidisce la mente. La vista si annebbia in una «invincibile insidia dell’ottica», i ricordi così scivolano via in silenzio, come ombre che si allungano in maniera sinistra, assottigliandosi e confondendosi l’una con l’altra: «come sotto ad una porta/luce a pena scorta/(questa fede/d’accatto e d’aceto/sfogo del troppopieno)/ombra che si aggiunge ad ombra». Allora in una «febbricitante veglia» i pensieri non possono far altro che ronzare nella mente di chi aspetta, riecheggiando come tamburi nefasti di una danse macabre. La felicità non può dunque che apparire agli occhi di Ferreri così lontana e irraggiungibile da sembrare infinitesima come un chicco di grano che può facilmente smarrirsi. Neppure l’amore può fuggire dalle spire asfissianti di questa ansia sfibrante. Così come “la bestia leoneggiante, gecheggiante” di Caproni, mostro terribile ma della cui presenza/assenza non sembra possibile liberarsi, allo stesso modo è la creatura amata (ormai forse solo da lontano) da Ferreri: la sua immagine gli scorre nelle vene poiché è «sangue, esangue/sussulto» della carne. Onnipresente eppure inesorabilmente assente, non può essere scacciata via se è parte stessa del suo innamorato. La passione è così un fuoco che si può solo intuire da ciò che ne è rimasto, dalla sua cenere o “spremuto carbone” dopo una vampata improvvisa e subitanea che ha bruciato troppo in fretta gli abbracci, finendo per annichilirli. Così «le cose escono/dal loro elemento e si disconoscono/solitudine fumida, crepitante/ che in multicolori vampe solleva/la stenta brace del minuto: lustrale pena» e delle follie inebrianti rimangono ormai solo rovine e rimpianti («avrei voluto incontrarti…») e dolorosi ricordi («un tempo da te volli lusinghe/e incantesimi»). Come un bel frutto caduto e avvizzito prima di maturare e divenire rigoglioso sul ramo, la persona amata è allora nient’altro che «acerbe esteriorità, inesploso seme» che inevitabilmente, riflette non senza livore il Poeta, «altro sole matura». Proprio il sole nei versi di Ferreri, non è più fonte di vita ma sembra essersi anch’esso immalinconito, ridotto a presenza quasi diafana («il sole appena/trema nell’azzurro stagno») di un giorno esausto che si torce e boccheggia come un pesce in fin di vita. La natura intorno è tutt’altro che florida e vitale poiché i paesaggi ferreriani sono dominati dalla «brulla e scarna pianura» o da uno «spoglio sottobosco» in cui anche il vento non è mai placida brezza marina ma violente raffiche che fendono e risvegliano «la mente dalla sua ruggine». È chiaro che questa desolazione è lo stesso gelo che regna nel cuore, che paralizza e blocca in una eterna attesa, in una dimensione temporale entropica di sospensione, come i personaggi beckettiani, vere e proprie ombre terminali (…) dalla prefazione di Emila Musumeci

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