IL SAPORE DELLA RUGGINE di Irene Savasta

collana Sale d’attesa

con saggio introduttivo di Giulia Sottile

978-88-6282-150-6

Il sapore della ruggine è la fotografia di un uomo in cui credo in molti si possano, sebbene nel segreto, identificare. Non è un folle, no, è talmente nella norma, soprattutto in molti contesti socio-culturali, da darci fastidio. Se fosse bollato come deviante, sebbene si limiti il disagio alla sfera affettiva senza sfociare in derive socialmente pericolose, potremmo stare più sereni e dormire sonni tranquilli perché si tratterebbe di problemi che non sfiorano neppure alla lontana noi che siamo “normali”. Ebbene non è così. Irene Savasta è un’abile fotografa e coglie gli sguardi dietro le lenti degli occhiali.Il sapore della ruggine è la secchezza di quando ci mancano le parole ma ancor più in profondità sono i pensieri stessi a mancarci, quando sarebbero così intollerabili che preferiamo sopprimerli per non doverne accettare l’esistenza, il sapore della ruggine non è semplicemente amarezza o melanconia che proprio in quanto tale è incomprensibile e inafferrabile nell’impossibilità di accesso alla sua fonte primordiale, non è dunque questa la sua eziologia, quanto quello che più avanti l’Autrice stessa chiarirà quasi per errore, come chi si fa scappare una verità che avrebbe dovuto mantenere nel segreto. Lei scrive “l’odore del sangue”. Ed è tutto rosso, a partire dal divano, il cui colore è specificato forse ingenuamente ma nel corso della storia a poco a poco tutto ciò che provoca sofferenza interiore è rosso, il rosso della ruggine la cui etimologia guarda caso è proprio legata al verbo latino rùbeo (rosseggio, sono rosso), il rosso del sangue che viene chiamato in causa quasi in un lapsus per poi tornare nuovamente al significante ruggine, adottando questa immagine più rassicurante da noi associata al normale corso degli agenti atmosferici, NORMALE,  di certo più del sangue. Ma è il rosso di una ferita ancora aperta che non è riuscita mai a rimarginarsi, come quella di Prometeo dal fegato roso dall’aquila mandata da Zeus per vendicare gli affronti subiti. All’origine c’è una colpa, e anche all’origine delle vicende di Ivan, il protagonista del romanzo di esordio di Irene Savasta, c’è una colpa. Ma il rosso ritorna sempre, intrufolandosi attraverso il calore dei paesaggi siciliani da Ivan tanto odiati ma tanto desiderati durante la sua permanenza in un Settentrione così perfetto da non trasmettergli nessuna emozione. E così il rosso del sole si mescola all’aridità della terra ma anche ai sorrisi della gente che desidera vivere le proprie emozioni senza voltar loro le spalle in segno di ripudio. Sopra ho scritto aridità, ma sarebbe a questo punto opportuno attuare una correzione: è preferibile parlare di asciuttezza. Dinnanzi al paesaggio siciliano non ci si sente inariditi, sembra quasi voler dire il protagonista, la secchezza esterna è data dal fatto che la terra, madre generosa e devota, spende tutte le proprie energie a infondere calore ai suoi abitanti, a dar loro frutti ma soprattutto a scaldare quelle anime che la vita ha voluto e saputo congelare. E’ a questo stadio che si trova l’anima di Ivan, ibernata in una lunga interminabile era glaciale che solo il ritorno alla propria infanzia, solo il “faccia a faccia” con la Sicilia, poteva sciogliere. E quando quel calore diventava troppo forte e rischiava di ustionare, la Sicilia poteva dare il refrigerio dell’acqua nella sua ampia distesa di mare in cui è possibile riscoprire la quiete, come se permettesse di estendere se stessi al di fuori della gabbia stretta del corpo e la massa compatta, diffondendosi in un più ampio spazio, fosse meno pressante dentro chi ha tante cose da dire ma non trova parole e pensieri. Ma Irene Savasta trova una sfaccettatura particolare a questa del tutto personalizzata immersione/integrazione di Ivan con il mare, scrivendo di come lui pensasse a quando da ragazzo passava il tempo (Cfr. Saggio introduttivo di Giulia Sottile alla edizione in volume, apparso poi in rivista su lunarionuovo.it).

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