DI ME MI PRENDO E DI ME MI LASCIO di Rosa Pedalino

romanzo

collana Nuove Tressule

isbn978-88-6282-058-5

Una grandissima invenzione romanzesca quella di Rosa Pedalino che, nei due volumi che compongono l’opera, riesce a creare un personaggio narrante stra-ordinariamente femminile, drammatico e al tempo stesso sardonico, ilare e triste, infantile e maturo, straordinariamente vivo. Si prenda una donna, bella, sfacciata, sfaccettata, curiosa, complessa, quella che gli psicologi definirebbero problematica. Le si dia un passato siciliano d’infanzia misera di denari e affetti, d’adolescenza ribelle, di gioventù assetata di saperi e sapori, e un presente in terra straniera, dove alla soddisfazione del desiderio si aggiunge e mescola il dolore della perdita e la riflessione sulla separazione, con risultati al limite della nevrosi. Una gaddiana cognizione del dolore? Semmai, del sommo autore è presente solo l’ -ismo del linguaggio, un italiano regionale misto a fraseologie francesi e dialetto di Sicilia. E se di isola si tratta, allora sarebbe meglio parlare di darrighismo. Tra uno spampino di talco, un paio d’occhi a pampinelle, e un motomaligno allo stomaco, il filologo – e non solo lui – si divertirà a tracciare nuovi significati per nuovi significanti: sgaiattolare, ciacciacciare, appaurato, cuucciu, cucchieggio, annocciola, sono solo alcuni esempi del sanguigno vocabolario della Pedalino. Linguaggio a parte, seppur fondamentale parte che potrà essere analizzata in altre sedi, il nodo centrale in quest’opera è rappresentato dalla parola separata. Il personaggio principale, narratrice una e trina (o forse quadrupla), tenta di sbrogliare la matassa delle cause della sua separazione dal mondo, dal marito, dalla terra natia, di se stessa. E il nodo non è facile da sciogliere se la personalità narrante soffre di sdoppiamento, anzi per dirla con le parole del personaggio, è “come un’arancia sicula e sanguigna a quattro spicchi”. In un lungo romanzo che si snoda in due parti, il lettore ha la sensazione di ascoltare un coro di voci che si accavallano tra passato e presente, eppure tutti parlano attraverso il filtro del ricordo, del sogno, della creatività, delle epistole della sola e unica narratrice, che lì scopriamo chiamarsi Chiara, là Mara, o ancora Iviana, Artura, Attiliana e Mercurio. Non sono mai personaggi a sé stanti, anche se ognuno caratterizzato da linguaggio, indole e atteggiamento propri, ma parti indivisibili di uno solo. I due volumi sono legati dal tentativo di capire la natura di “un minuscolo animale che mi ha dato gatta da pelare, perché appariva, entrava e usciva, facendomi perdere il contatto con la realtà”. La protagonista è infatti vittima di un mal d’essere, un disturbo allucinatorio provocato da quello che lei definisce Trio Mortale, ovvero la morte nello stesso anno di tre figure maschili a lei vicine: il padre, un giovane suicida che l’amava non ricambiato, e un vecchio intellettuale che lei chiama Nonnino, ma in realtà è un estraneo sul quale ha trasferito l’immagine del nonno materno, con tutti i correlati sentimenti. È a causa della perdita di uno dei tre che è iniziato il disturbo del personaggio narrante e, nonostante lo sforzo di dar forma e colore alla sua nevrosi, riesce a identificare e sconfiggere solo la prima. Agli àgli m’incipollo (La Forma) è il titolo del primo volume, rielaborazione italiana di detti siciliani che da’ il senso di una chiusura emotiva di fronte a fatti negativi: più i nervi sono a fior di pelle, più la pelle ha bisogno di protezione, di coprirsi di scuse che allontanano dal corpo. Di me mi prendo e di me mi lascio (Il Colore) è invece il titolo del secondo volume che già allude al nonsense. Una differenza sostanziale caratterizza i due testi, che potrebbero essere letti autonomamente, ed è l’approccio della narratrice al suo problema. Scrivendo delle lettere a un uomo malato terminale di cancro, la donna tenta di recuperare qualunque evento passato, anche il più lontano, che possa aiutarla a comprendere la natura della “liverate” che appare e scompare nel suo presente. Con la morte del terzo componente del Trio, questa scrittura non è più possibile, il crollo è inevitabile: “So pure che sarò io a tradirmi tra il dire di me, ma più il tempo passa, più sarai di tutti. Sono come una madre a cui senza soluzione si stringe il cuore ogni giorno che passa fino a restarne senza per accompagnare chi ha partorito?” Dall’allucinazione allo sdoppiamento della personalità, cambia la forma della nevrosi, così come quella della scrittura. Rivolgendosi ad un lui più distante che presente, che non è più Eco delle sue parole ma solo silenzio, la narratrice si farebbe in quattro pur di comprendersi, e quattro in realtà sono le sue personalità. Ed è proprio dalla lotta mentale tra le sue componenti psicologico-comportamentali che vengono a galla verità, sogni, desideri, fatti passati e presenti, lutti e matrimoni. Eppure molto ancora resta sotto la superficie, nel profondo dell’animo del personaggio che volutamente prende e tralascia di sé quel che vuole. Il filo logico, o dovremmo dire alogico, è quello seguito dalle tre personalità che compongono il Trio Vitale, e pare richiamino le istanze psichiche freudiane: l’Iviana come l’Es, vera pulsione inconscia, istinto sessuale e di morte allo stesso tempo; l’Attiliana come il Super-Io, censore e giudice, rappresentante dei divieti e delle regole dei genitori inconsciamente interiorizzati; l’Artura come l’Io, liberata della fase edipica e in piena pulsione egoica di affermazione del sé, contro i genitori e contro il mondo. Forse non è un a caso che le tre figure rappresentino tre stadi diversi della vita del personaggio: la prima ha circa tre anni (la fase fallica freudiana), come sembrerebbe suggerire anche il nome – Iviana, dall’ebraico Yohanan, “dono del Signore”, veniva dato ai bambini che nascevano dopo diversi anni di matrimonio. La seconda ne ha circa sei (fase latente), e il suo nome, di origine etrusca, richiama l’immagine della “donna-orso”: Artura è tanto più ostile verso il mondo maschile, quanto più le zie con disprezzo le dicono che assomiglia al padre. La terza figura ha un’età indefinita, ma probabilmente maggiore di quella della narratrice, se consideriamo che Attiliana deriva dal latino atto, con cui si designavano i nonni, e più in generale gli avi. L’operazione compiuta dalla narratrice, che sembra voler fare auto-analisi della sua nevrosi, è comunque cosciente, le sue facoltà intellettuali intatte, e quindi improvviso ma non del tutto incontrollato è l’apparire dell’una o dell’altra personalità, con lei a cercare di destreggiarsi tra le varie pulsioni più o meno inconsce oppure a lasciarsi trasportare quando esse fanno (Dalla prefazione di DANIELA SAITTA)

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