Il sogno è un fenomeno psichico pienamente valido e precisamente l’appagamento di un desiderio”
Sigmund Freud

Era una sera di mezza estate e il paese di Portopalo si accingeva a farsi abbracciare dalla notte. La giornata di Marco non era stata così diversa da quella del resto del paese. La mattina era andato al mare per farsi un bagno e leggere un libro sotto il sole. L’acqua era limpida e aveva trovato un piacevole refrigerio nel tuffarsi dopo esser stato diverse ore sotto il sole. Ogni tanto sentiva il bisogno di stare da solo, così prendeva un libro e si recava in spiaggia. Mentre leggeva a volte iniziava a pensare così tanto da perdersi sulla stessa pagina che aveva sott’occhio. Bastava una parola per accendere in lui un ricordo capace di mettere in moto la sua mente. Lo stesso accadde proprio quel giorno mentre leggeva i Malavoglia. “E che vuoi farci se sei un povero diavolo? Bisogna vivere come siamo nati”, finito questo rigo, la sua mente iniziò a vagare. Pensò che anche lui si sentiva così e che viveva davvero com’era nato, avvertiva nel suo cuore una solitudine imperante. Nessuno era stato mai capace di curarla, ma solamente di lenirla. I suoi due amici di sempre erano la consolazione di un mondo che gli odorava di morte. Ovunque guardasse non riusciva a pensare che la parola fine, prima o poi, arriva per tutto e che un bagno al mare non era capace di lavargli via di dosso il malessere che si sentiva. Era impossibile da staccare, era come la pece sulle piume degli uccelli.  

Tornando a casa, preso dalla fame si era fermato a comprare delle vongole. Sarebbe stato solo a pranzo, ma anche qui, non si andava oltre la solita routine. A casa era rimasto solo lui. Così aveva scelto di prepararsi degli spaghetti con le vongole. Il rumore dell’aglio e dei gambi del prezzemolo che sfrigolavano sulla padella era coperto solo dalla musica che adorava ascoltare mentre cucinava. Mise le vongole sulla padella, le sfumò con una parte del vino bianco che poi avrebbe bevuto e coprì la padella con un coperchio. Successivamente buttò gli spaghetti nell’acqua bollente e aspetto. Intanto le vongole si erano aperte; si sedette sul tavolo che aveva in cucina e iniziò a sgusciare delicatamente, si erano aperte tutte. Filtrò il liquido che avevano rilasciato e mise tutto da parte. Passò velocemente il tempo di cottura degli spaghetti. In padella unì questi, il liquido precedentemente filtrato e le vongole. Saltò tutto e impiattò. Mentre si versava un calice di vino, un bianco fermo, si ricordò che mancava il prezzemolo. Lo tritò al volo, lo mise sulla pasta e iniziò a mangiare. “Buon pranzo” disse invano, dato che nessuno poteva ricambiare l’augurio.

Dopo aver mangiato il primo boccone, si girò verso la finestra della cucina.

Dal vetro si scorgeva il relitto di una nave. La prua si stagliava timida sul mare, le onde l’accoglievano in un delicato abbraccio e nulla lasciava scorgere cosa fosse celato dal blu marino. Marco conosceva diverse storie su quel relitto, le aveva sentite tutte da suo nonno Santiago. L’uomo, pescatore non per passione, aveva vissuto una vita intera in mare, grazie a lui Marco aveva imparato il nome di ogni singolo pesce del Mediterraneo, sapeva riconoscere quand’era fresco e quando invece no. L’occhio era tutto, ma c’erano anche altri segreti che custodiva gelosamente. Ricordava le mattine in cui suo nonno lo portava in pescheria per insegnarli tutto questo. Eppure, non lo aveva mai portato con sé in barca: il piccolo Marco aveva paura di lasciare la terra ferma, il nonno gli diceva sempre “lascerò sempre una luce accesa così che, anche nella notte più buia, saprai dove trovarmi”. Marco sapeva che nell’immenso nero del mare di notte non avrebbe potuto vedere quella luce; tuttavia, sapeva della sua presenza e questo bastava. Crescendo non si slegò mai da quella sensazione di serenità che la luce del peschereccio del nonno gli dava.

Venne poi un giorno che arrivò il pesce, ma non il pescatore. Marco disperato chiese all’equipaggio. Le facce turbate non lasciavano presagire nulla di buono. “Il mare lo ha ingoiato, è caduto in mare e non è più riemerso”. “Com’era potuto accadere?” si chiedeva Marco, “il nonno sapeva nuotare”. Nessun altro proferì altre parole, erano tutti dispiaciuti. Quell’uomo anziano era per alcuni fonte di lavoro, per altri – Marco – fonte di sicurezza. Il padre di Marco decise di affidare l’attività al secondo del nonno, lui non aveva tempo e Marco era ancora troppo giovane e nel pieno dei suoi studi. Quella notte il peschereccio restò ormeggiata, fu l’ultima volta che Marco vide la luce che il nonno lasciava accesa. Dalla luna successiva, i demoni iniziarono a fargli visita per danzare con lui. Nonostante fosse passato già un po’ di tempo da quel giorno, non riusciva a smetterlo di riviverlo. Aveva imparato a convincerci, ma superarlo del tutto era ben altra storia. Deglutì un sorso di vino. “Mi manchi tanto nonno” sussurrò a denti stretti.

Passò il pomeriggio avvolto dalla nostalgia, i suoi amici erano tutti in vacanza altrove: chi con la fidanzata, chi con la famiglia. I genitori, invece, avevano dovuto improvvisare una partenza dell’ultimo secondo a causa della morte di una lontana zia della madre. Così Marco restò solo. Non che quando ci fossero gli altri non si sentisse così, ma era comunque una questione di presenza e assenza.

La solitudine può corrodere l’anima, se diventa l’unica scelta che un uomo ha, tuttavia è bene abituarsi a viverla, onde evitare di approcciarsi al primo porto che si trova e vivere nel rimpianto di non aver avuto il coraggio di sapere cosa ci sarebbe stato oltre. Del resto, gli uomini si possono dividere in due categorie: chi spera che Ulisse che resti ad Itaca e chi invece spera che parta nuovamente. Marco apparteneva alla seconda categoria di persone, avrebbe peccato di hybris e sarebbe arrivato fino alle colonne d’Ercole.

Dopo aver dormito un po’, uscì per fare una passeggiata e al calar del sole tornò a casa. Entrando, notò un qualcosa che mai aveva notato prima, una sorta di soffitta. “E questa da dove salta fuori?” pensò. Nella penombra aveva scorto un filo trasparente a cui mancava evidentemente il classico appiglio per far sì che potesse afferrarsi e aggrapparsi comodamente, lasciando aprire l’entrata della soffitta. “Non me ne sono mai accorto?” si chiedeva tra sé e sé.  Marco aveva paura di tirare quel filo, se si fosse rotto, non avrebbe saputo come aprire la soffitta. Provò, diede un colpo deciso. L’anta si aprì.

Una volta sopra, era difficile distinguere le forme nel buio di quella stanza, si aiutò con la torcia dello smartphone. Vide un baule. Che fosse del nonno? Del resto, quella casa era sua. Lo aprì e dentro vi trovò qualche conchiglia, utensili di vario genere, bottiglie vuote e una rete bucata. Per il resto c’era solo polvere. Eppure, gli sembrò che ci fosse altro. Sulla sinistra del baule, trovò una tela. Raffigurava una barca nel mare. Era un vascello con una prua che spiccava rispetto al resto dell’imbarcazione. Lo portò giù per vederlo meglio. Il quadro sembrava uscito da un romanzo di Jules Verne e non aveva autore, anche chi lo aveva realizzato era sparito nel mare, lo stesso che aveva scelto di dipingere in tempesta. Nel quadro sembrava che fosse da poco calata la sera, il cielo era coperto di nuvole e sulla nave erano raffigurati una serie di marinai intenti a combattere con la tempesta. A Marco quel quadro piacque, così lo portò giù e lo appese nella stanza d’ingresso. Cenò con un po’ di pane condito: pomodoro, cipolla rossa, olive, olio extravergine d’oliva, basilico, sale e pepe. Non aveva tanta fame. Prima di andare a letto finì il libro che aveva letto la mattina a mare e bevve un paio di birre. Un altro giorno era passato.

Si mise sul divano. Guardava quel quadro, sembrava che lo chiamasse. “Nonno…” diceva tra sé e sé. “Marco”. Non c’era nessuno nella stanza, chi era a chiamarlo? Non era ubriaco, non aveva le allucinazioni. Sentì bussare alla porta, l’aprì e trovò davanti a sé un uomo pelle e ossa. Aveva una barba leggermente incolta, pochi capelli e uno sguardo capace di scrutargli l’anima.

“Non ci credo”

“Marco”

 “Ma tu sei morto”

“Io sono sopravvissuto”

“Non ci credo”

“Marco, posso entrare in casa mia?”

“Nonno…”

Santiago non era morto. “Come sei sopravvissuto?”
“Ora arriveremo anche a quello. Marco, se ti guardo negli occhi, vedo i demoni che hai in testa. Che succede?”

“Nonno, io sento come se questo mondo non mi appartenesse, è come se una parte di me se ne fosse andata per sempre e con lei anche altro. Mi sento in balia della corrente, sogno di annegare spesso, com’è successo a te. Nonno io mi sento solo”
“Non è detto che la corrente di porti alla deriva, lo sai?”
“Nonno non è possibile, non può accadere mai di salvarsi”

“Marco, mai e sempre sono due concetti che non appartengono all’umano, ma al divino. C’è sempre speranza, privarti di questa vorrebbe dire vivere per inerzia. È la speranza che ci fa muovere, che non ci fa annegare. Fino a quando avrai un po’ d’aria nei polmoni devi provarci”

“Riesci sempre a trovare le parole per scavarmi nell’anima. Vorrei tanto poter aiutare chi come me non ha la sua luce in mezzo al buio. Ma come sei sopravvissuto?”

“Ora arriveremo anche a quello, aspetta. Ricorda sempre una cosa, potrai sempre tendere una mano a chi ne ha bisogno, ma non è detto che questi scelga di afferrarla. A volte è più comodo annegare, arrendersi alla corrente. Si prende ciò che arriva perché ci fa meno paura, perché non si deve lottare, è comodo affidarsi al corso degli eventi. Noi non apparteniamo a questo genere di persone. È da codardi. Noi siamo coraggiosi”

 “Nonno, guarda quel dipinto”

“Quale? Ah, sì. Dove l’hai trovato?”
“In soffitta”

“L’ho dipinto io. È l’unico quadro che ho dipinto per tua nonna che non ho venduto dopo la sua morte”

“Perché li hai venduti?”
“Non c’era più che nessuno che li guardasse come tua nonna. Quello però l’ho tenuto perché l’ho fatto per te”

Il vecchio si alzò e si avvicinò al dipinto. “Vedi?”
Nella cabina del capitano una pennellata decisa di colore giallo oro spiccava nel buio del dipinto. “Non me ne sono accorto prima?!” pensò Marco.

“Questo era per te, te l’avrei regalato per i tuoi 20 anni, ma il mare mi ha inghiottito prima – riprese l’uomo – senza lasciarmi scampo. Marco io tenevo accesa la luce per te, ma eri tu che in quella luce sceglievi di trovare qualcosa. I simboli sono potenti, ma non sono creatori di forza, svegliano qualcosa di sopito in noi. Siamo noi i sovrani dei simboli, e non viceversa. Trova la tua luce, un giorno riuscirai a rianimare anche quella di qualcun altro. Ricorda, però, essa già esiste. Al massimo si è solamente affievolita”.

“Cosa?”
“Marco, nel buio, segui la tua luce”

E la pennellata del dipinto si fece sempre più forte fino ad avere la capacità d’illuminare l’intera stanza e accecare Marco.

“Nonno, ma come sei sopravvissuto?” urlò il ragazzo nella confusione più totale.
“Nella memoria non si muore mai”

E poi Marco si svegliò.

La stanza era ancora buia, il quadro era tornato ad essere quello di prima. Marco, però, senti il bisogno di alzarsi. Accese la luce della cucina e con stupore notò che su quella tela c’era davvero una pennellata di giallo. Era solo leggermente sbiadita. Non riusciva a credere a quel sogno, sembrava tutto così reale. Si affacciò alla finestra della cucina per versarsi un bicchiere d’acqua e riprendersi da quel turbinio di emozioni. Era tutto sudato. Quel giorno, così come quando era scomparso il nonno, aveva soffiato vento di Scirocco. “Non saresti dovuto uscire in barca quel martedì” sussurrò sorseggiando l’acqua.

Guardò il relitto che si vedeva dalla sua cucina. “Somiglia da morire alla barca del dipinto” pensò. Poi in fondo al mare scorse qualcosa, una luce. Questa volta Marco non stava più sognando.

Francesco Raguni

(foto di Aneta Foubíková)