“Va beh, quello è poeta”, si va dicendo di chi è consigliabile non prender troppo sul serio, perché il poeta non va preso sul serio, il poeta, stando al più diffuso senso comune – radicato anche nei più insospettabili – è come lupazzu del proverbio siciliano, che canta e campa perché tanto nessuno gli crede e non dovrà temere per la propria incolumità fisica nell’eventuale mirino di una lupara regolatrice di conti. Anche il poeta così è insignito dell’ormai proverbiale morte civile che caratterizza il presunto pazzo, certo con qualche clemenza: sarà un po’ svampito, con la testa chissà dove, ma è pur sempre un soggetto adattato nella società. Come il lettore può notare, sembra quasi che emerga un vero e proprio profilo di personalità del poeta, come se fosse possibile ricorrere a una categoria personologica – e psicologica – in cui far rientrare questa razza a parte di gente per bene, per carità, della cui amicizia magari vantarsi, ma per ricorrere alla prevedibile sentenza classificatoria al momento di voler squalificarne la prospettiva. Funziona sempre perché fa breccia in uno stereotipo già radicato. Che la poesia risenta oggi della contemporanea idea di poeta? All’incertezza sulla comune definizione del termine poeta corrisponde altrettanta incertezza sulla definizione di poesia, ma questo è un capitolo a parte e non rischiamo di perderci nei suoi meandri. Piuttosto, la diffusa e ferrea convinzione che chi scrive poesie sia persona poco concreta, poco razionale, persino poco affidabile, che goda – o soffra – di un distacco dalla materialità delle cose perché la sua mente viaggia altrove ed è – udite – a contatto con il divino… si diceva, tale diffusa e ferrea convinzione fa sì che persino i diretti interessati, nel timore di poter identificarsi in tale modello o di essere etichettati e conseguentemente all’occorrenza squalificati ed esclusi dalle faccende “serie”, tendano a tenere nascosta questa vocazione, seppur passeggera e appartenente a un’epoca circoscritta della propria vita, se non persino a vergognarsene. È il caso anche di qualche personalità politica (di cui non faremo i nomi) di notevole spessore – in termini sia culturali che di seguito elettorale – e di altrettanta “altitudine” nella piramide gerarchica dei ruoli, che si guarda bene dal rivelare di aver scritto – e pubblicato! – poesie, al punto di negarlo se domandato. Il politico e il poeta, quali personalità più antipodiche! “E così giustamente non lo ammetteremo in una città destinata a buon governo” scriveva Platone a proposito del poeta, nel libro X di La Repubblica. Così ci viene da dubitare sull’aggettivo “contemporanea” a proposito dell’idea di poeta di cui si parlava più su.
Sorvolando sulla cortigianeria che per molto tempo e in molti contesti ha caratterizzato – e caratterizza tutt’ora – l’attività poetica di una fetta dei cantori, veri e sedicenti, a eventualmente legittimare l’invettiva platonica che ricorre alla definizione di “mimesi”, finzione, per definire questo genere letterario (sempre se sia possibile parlare di generi letterari al plurale in riferimento a epoche come quella ellenica di IV-V secolo a.C.), resta l’adattabilità della stessa invettiva ad altri status e altri presunti tratti legati allo stile di pensiero del poeta. Questi, imitatore di parvenze della virtù e delle altre cose che va poetando, scrive Platone, non coglie la verità, produce cose scadenti rispetto alla verità e ha un rapporto con una parte dell’anima che non è la migliore. Il poeta, imitatore, instaurerebbe nell’anima di ognuno un cattivo governo, assecondando l’elemento irrazionale e foggiando parvenze illusorie, capaci di contagiare anche i buoni. Ma non è finita qua. Il poeta dà voce all’aspetto piagnucoloso dell’anima, non abbastanza educato dal ragionamento, e la poesia alimenta quei sentimenti che invece andrebbero disseccati, dominati, “per poter noi diventare migliori e più felici”. Io propongo di perdonare Platone, di cui conosciamo tutti la visione relativa alle emozioni umane e al loro rapporto con le altre funzioni e attività del sistema mente-corpo, ricordiamo la famosa metafora del carro trascinato dai due cavalli, uno bianco e l’altro nero. Così, forse, se si volesse scavare sino alle fondamenta, è della concezione di uomo come essere umano che si dovrebbe discutere in un’ipotetica seduta spiritica con il filosofo ateniese, e solo in seconda battuta della concezione di poeta che non ne è che una naturale conseguenza.
Pur non sapendo come se la passava Dante con i propri contemporanei in merito al propriostatus poetico, concluderemo solo col dire, per adesso, che permane oggi una visione sostanzialmente platonica di quel benedetto e maledetto individuo della nostra specie che, non potendo farne a meno, ricorre alla forma espressiva della poesia per poter dire (e non dire).
Giulia Sottile