Solitamente si pensa alle relazioni intergenerazionali in termini lineari, come ci fosse un progressivo procedere unidirezionale verso il meglio (o verso il peggio), nello stesso modo in cui lo sarebbero la Storia dell’essere umano o il percorso evolutivo di una specie. Forse si è dimentichi delle lezioni del tempo, la voce passa sempre a chi non ha saputo o potuto impararle, oppure più semplicemente l’uomo non cambia e ripropone gli stessi modelli, che in ogni epoca si rimescolano come dadi per giungere a una nuova combinazione numerica in cui a cambiare sono forse le proporzioni delle schiere. È più un interrogativo questo, ma che avalla ancora una volta una concezione circolare della Storia, che dovrebbe tutto sommato renderci però più avveduti al momento di dotarci di strumenti per affrontare il presente, piuttosto che fabbricarceli nuovamente da zero. Che a salvarsi, pur nella sua contemporanea menomazione, sia la cultura?
Nonostante il motto che ormai tutti conosciamo, corruptio optimi pessima, sono molte le storie che nei secoli abbiamo collezionato, storie di democrazia, fratellanza e meritocrazia, nate proprio nella cornice dello sport, dell’arte, della scienza. Sappiamo come studiosi e artisti in pieno periodo di guerra non abbiano esitato a offrire collaborazione o rivolgere ammirazione nei confronti di un collega di nazionalità “nemica”. In realtà il concetto di collezionismo prevede un prendersi cura, un conservare, trattenere, che ci sembra l’uomo non operi, intento a guardare sin dove i propri sensi ovattati colgono mentre certi esempi umani scivolano via con la pioggia. Perché basta una pioggia per lavar via acquisizioni come la conquista di un diritto o la fine di una discriminazione. Ci convince però l’idea che la cultura si salvi, che la cultura salvi. Ce lo conferma il matrimonio quotidiano tra violenza e ignoranza.
Un po’ lunga come introduzione, ma a giustificare la ragion d’essere di un ricordo che vogliamo ripescare dalla straordinaria autobiografia di Margarita Wallmann, la prima regista di teatro lirico mai esistita, vissuta negli anni delle guerre mondiali (Cfr. “Balconate dal cielo”, Garzanti). La storia che ricordiamo dovrebbe trovarsi scolpita nella memoria del popolo russo più che del resto dell’umanità, e questo a fronte delle epurazioni che continuano a essere operate dal governo insieme alle contemporanee repressioni delle manifestazioni anti-corruzione, con centinaia di arresti (si ricorda il caso di Aleksej Navalnyj), perché, sebbene “le autorità russe accolgono senza problemi le opinioni dei cittadini espresse in modo civile e nel rispetto della legge”, le manifestazioni, per legge, devono essere autorizzate! Per non addentrarci in speculazioni politiche, ci limitiamo a dire che i tempi di Mikhail Gorbaciov sono lontani, con la sua glasnost, (tanto più quanti sono i passi indietro da allora compiuti), e che a lui questa storia sarebbe piaciuta.
Risale all’epoca in cui la Wallmann lavorava alla Scala di Milano (anni ’50), durante un concorso di danza da lei diretto e presenziato dall’ultima stella della Russia zarista, Olga Préobrajenska, simbolo della danza (ovviamente classica) e rappresentante di un mondo ormai scomparso. All’ultim’ora fu annunciato l’arrivo inatteso di un’altra celebre stella, altrettanto primadonna, ma appartenente alla subentrata realtà sovietica, Galina Ulanova. Se la prima, ormai anziana, portava sempre con sé nella borsetta la decorazione di cui era stata insignita dallo zar in persona, la seconda, giovane, desiderosa di visitare la Scala con altre colleghe, era in tournée in Italia «non sui palcoscenici, ma nelle fabbriche». L’aria era tesa e gli animi in subbuglio per il temuto incontro, così quanto accadde fu del tutto inaspettato: le due artiste che avevano calcato le stesse scene a Mosca e a Pietroburgo, per l’una, che era già divenuta Leningrado per l’altra, sopraffatte dalla commozione, si abbracciarono. «È stata questa, senza dubbio, l’unica circostanza in cui la Russia vecchia e quella nuova si son date la mano», scrisse la Wallmann allora.
Qualcuno potrebbe appellarsi all’appartenenza delle protagoniste al genere femminile e della non-frontalità che caratterizzava quegli anni post-bellici nell’attutire la forza dell’impatto di questo episodio, e allora ce ne viene subito in mente un altro, anche se attorniato quest’ultimo da un alone di leggenda, verificatosi sul fronte del Carso durante la Grande Guerra. Nelle fila dell’esercito italiano, nel corso di una notturna pausa dai combattimenti, un soldato siciliano si dilettava con una chitarra a intonare la celebre canzone “E vui durmiti ancora”, ricevendone inaspettatamente, a esecuzione ultimata, l’applauso corale dell’esercito austriaco all’altro capo del campo.
Pare che genere, preferenza sessuale, nazionalità, lingua, religione, orientamento politico, cadano in secondo piano dinnanzi alla bellezza dell’uomo che nutre le proprie migliori facoltà, elevandole, e scompaia ogni forma di intolleranza.
Giulia Sottile