a proposito dell’opera prima di Silvana Pinto, “Non altro che me”, in corso di pubblicazione…
“C’è un momento in cui devi decidere: o sei la principessa che aspetta di essere salvata, o sei la guerriera che si salva da sola. Io mi sono salvata la sola”. Questa è la citazione di Marylin Monroe che Silvana Pinto sceglie di porre a incipit di questo romanzo d’esordio e trovo che ne racchiuda l’essenza, nel suo contenuto tanto quanto nei moventi che lo hanno portato alla luce. È questa infatti una storia di fantasia che scaturisce da un percorso introspettivo, psicoterapeutico, che attraverso la narrazione di sé porta a mettere ordine, dentro e fuori, a comprendere e, soprattutto, a riappropriarsi della propria persona e della propria vita.
La protagonista di questa storia di ri-nascita è Rebecca (alias Silvana), colta nel passaggio da un lungo periodo di crollo emotivo a una fase di riemersione dal buio. Abituata a basare l’opinione di sé sull’esclusivo feedback maschile (quello del padre e dell’ex-marito), finiva spesso per fidarsi troppo facilmente delle persone che la facevano sentire speciale. Le delusioni seguite dalle auto-colpevolizzazioni conducevano a circoli viziosi senza fine, trappole senza apparente via d’uscita. Nonostante il bisogno di essere amata terrà vigile il rischio di idealizzazione dell’uomo, la protagonista farà scelte che le permetteranno di osservare se stessa da un’altra prospettiva, deterrente per abbagli e illusioni. Prenderà pian piano corso il pensiero critico e la razionalità, anteposti alle emozioni che a volte ci fanno deragliare dai progetti di vita e dai propositi. Nel corso della lettura sembra quasi di sentir riecheggiare la bellissima canzone di Mia Martini intitolata “Gli uomini non cambiano”, con un costante parallelo sottofondo, tra la speranza e la vittoria, dei versi conclusivi (gli uomini che cambiano sono quasi un ideale che non c’è, sono quelli innamorati come te). Eppure l’accento del romanzo di Silvana Pinto non è posto sul cambiamento degli uomini – anche perché sarebbe l’ennesimo errore della donna, voler cambiare l’altro per star meglio, e s’imbatterebbe negli incartamenti relazionali cari agli studi sistemici – ma sul cambiare se stessi (il proprio modo di pensare e comportarsi, la propria vita) per vedere cambiare il resto attorno a sé in un sorprendente effetto domino. È il principio del “campo”, secondo cui tutto è connesso in modo interdipendente e il variare di un elemento comporta una ridefinizione delle connessioni, degli spazi, degli stessi altri elementi. A ciò si aggiunge che il potere non è qualcosa che si prende, il potere viene conferito. Banalizzeremo, ma è una sintesi che ci permette adesso di meglio inquadrare il percorso di questa donna che da principessa nella torre diviene guerriera (un po’ come nella rivisitazione della fiaba di Raperonzolo nel moderno cartone della Disney).
Il lettore assiste, nel seguire le vicende della protagonista, a un graduale spostamento dell’asse sull’io. Il punto di riferimento dei propri atteggiamenti verso le cose, i cardini dei processi decisionali e degli stessi sentimenti, si collocano sempre più dentro di sé. Il senso opprimente di solitudine cede il passo alla capacità godere della propria compagnia, di amarsi. Questa riappropriazione di agenticità è testimoniata anche dal frequente ricorso, nella costruzione del periodo, al nome proprio, a volte con ridondanza, anche lì dove superfluo, a ribadire il soggetto dell’azione di cui è, per l’appunto, il solo e unico agente. “Rebecca disse”, “Rebecca aggiunse”, “Rebecca decise”.
Sebbene talvolta la caratterizzazione del coprotagonista maschile appaia a tratti aderente a una rappresentazione stereotipata – e la fase iniziale di corteggiamento pericolosamente insidiosa per una protagonista che rischia di vacillare nell’accondiscendenza – si ritaglia presto spazi in cui tirar le somme e giungere comunque a scelte consapevoli e autonome. L’identificazione di Rebecca con il presto facile appellativo “piccola” con cui viene chiamata – e che può a primo acchito irritare il lettore che già si è affezionato a lei – risulta un vezzeggiativo che, a lungo termine, non compromette la concezione dell’altro come soggetto autonomo, libero dall’ala paternalista.
Ma per tornare al cambiamento: la narrazione prende le mosse dal delicatissimo tema della maternità mancata, qui solo accennato (ma sappiamo da un’indiscrezione dell’Autrice che è in corso d’opera la stesura di un secondo romanzo incentrato sull’argomento). Il lutto, la delusione, la vergogna, la complessità dei sentimenti che ne scaturiscono avevano diviso l’aspirante coppia genitoriale e condotto la protagonista a un blues che solo la psicoterapia aveva potuto lentamente curare. Esperimenti quotidiani su di sé, portano nel tempo Rebecca a scegliere, un giorno, un cambiamento più drastico: quello di città. Qualcuno potrebbe obiettare che andar via sia una fuga o una strategia in fondo illusoria, eppure qui diviene il mezzo per rintracciare nuove opportunità (professionali e relazionali). Il dibattito potrebbe restare aperto, perché a volte ciò da cui vogliamo allontanarci risiede in realtà dentro di noi e ce lo portiamo dietro come una coda.
Qui però la fuoriuscita è corredata da un reale cambio degli schemi, e diviene propedeutica a una ri-nascita. È la stessa Silvana che ci segnala come la scelta dei nomi principali non sia stata casuale. Rebecca, Raul, poi il cagnolino Ronnie… hanno la stessa iniziale della parola “Rinascita”. Anche questo particolare rientra, insieme agli altri qui analizzati, nella cifra stilistica di Silvana Pinto.
Si aggiunge un’altra osservazione: la narrazione sembra quasi essere scandita dagli scambi relazionali tra i personaggi, che siano telefonate, sms, e-mail, lettere, spettegolii. Lo spazio riservato alla trama scompare dinnanzi a quello molto maggiore dedicato ai gesti che mettono, in un modo o nell’altro, in connessione, volti a riconoscersi e/o confermarsi reciprocamente come componenti di una relazione biunivoca e orizzontale, fatta di affetto e considerazione. La singola giornata, come emerge dalla narrazione, è segnata, nel suo inizio sino alla conclusione, dal sentirsi parte della stessa vita, parte della stessa storia. Telefonata o sms come rituale. L’accento è sugli affetti. Questo spiega perché l’Autrice sorvoli molto rapidamente sugli episodi e si soffermi, per esempio, sui messaggini di Raul. Ma troviamo anche altre figure importanti nella vita di Rebecca: Ester, Penelope, Ada, la madre.
Non passa poi inosservato il binomio amore-cibo. È un abbinamento frequente sin dagli albori della storia della letteratura di ogni dove. Lo troviamo nelle fiabe popolari e nelle opere letterarie moderne. È forse per quel principio secondo cui chi ti ama ti nutre e viceversa, fuori e dentro metafora, che fa breccia nella parte più arcaica, filo- e ontogenetica, del nostro mondo interiore. In “Non altro che me” troviamo frequenti e dettagliate descrizione di ciò che viene servito in tavola, che, oltre a far venire l’acquolina in bocca al lettore, ha un che di afrodisiaco a preparare il terreno per altro genere di piaceri.
È un romanzo rosa onirico, se così può mai essere definito, sul filone della famosa (e recente compianta) Rosamunda Pilcher, di cui probabilmente Silvana Pinto sarà estimatrice. A dire il vero, oggi parlare di romanzo rosa potrà apparire un po’ antiquato, alla luce della moderna concezione della donna e le profonde trasformazioni sociali che ne sono seguite. Oggi si sente usare il termine “chick-lit”, che sta per “chicken literature” (letteratura per ragazze, letteralmente: per “pollastre”), definizione che vorrei cogliere l’occasione per definire fuorviante dal momento che essa stessa si serve di un linguaggio non esattamente (neo)femminista, a dispetto del contenuto che vuole veicolare. E allora, intanto, che definizione dare a questo “Non altro che me”? Lasciamo in sospeso il quesito, come è sospeso il lettore che, in un’atmosfera da fiaba, si trova a viaggiare in uno spazio tra la terra e il cielo, come in un sogno, che rischia di essere il sogno di ognuno di noi. È forse per questo che a tratti ci sentiamo irritati, quasi presi in giro, perché ferisce i nostri quotidiani sforzi di accettare la realtà. È più sogno che fiaba, la fantasticheria di chi vuole ancora credere nel buono che c’è nell’Altro e che forse, riuscendo a coltivarlo dentro di sé, può davvero, ancora, trovare.
Giulia Sottile