«Stanotte e venuta l’ombra
L’ombra che mi fa il verso
Le ho mostrato il coltello
E la mia maschera di gelso
»

Ho visto Nina volare, Fabrizio De André

 

In una regione distante da tutte le altre civiltà conosciute, di cui si aveva conoscenza soltanto sui libri, dimenticata dalle restanti anime del globo, i bambini venivano cresciuti dal racconto d’una storia piuttosto tetra.

Si diceva che ogni anima potesse sopportare massimo tre colpi, per ogni colpo questa avrebbe perso un pezzo di sé, facendo crescere come memorandum del dolore subito un pezzo d’una maschera fatta in osso sul volto della persona interessata: la prima parte avrebbe coperto un terzo di volto, dall’occhio sinistro alla guancia sinistra, la seconda dall’occhio destro alla guancia destra, infine – l’ultima – la parte restante, cioè naso e bocca. Una volta subito il terzo colpo, e quindi completata la maschera, la persona sarebbe stata trasformata in quello che gli anziani del luogo chiamavano “l’ombra”, perdendo dopo 24 ore coscienza, poi i restanti connotati umani e infine consistenza. Proprio per il colore che andavano ad acquisire, nero come il mare di notte, erano state ribattezzate con l’appellativo di “ombre”. Si differenziavano dalle forme che s’allungano quando cala il sole per il colore della maschera d’ossa, bianca come la luna piena delle più raggianti sere d’estate.

La leggenda veniva tramandata da generazione in generazione, ma ormai nessuno le dava più credito, da tempo immemore non si vedevano mezze maschere, tanto meno, da ancor più tempo, nessuno aveva avuto la sfortuna di completare la maschera. I primi due pezzi prendevano forma soltanto per le tre ore più profonde della notte, alla comparsa del terzo sarebbero diventati perennemente visibili.

Così in realtà non era. Negli ultimi 60 anni, le ombre e le aspiranti tali, una volta realizzato il danno, sceglievano di inabissarsi nel grande mare adiacente alla città, approfittando dei loro ultimi minuti di coscienza per evitare di soffrire in eterno, alla ricerca del riempimento di un vuoto timbrato dal sigillo dell’eternità. Avrebbero continuato a vagare nel fondo dell’oceano, lì solo dove i pesci potevano vederli. Sulla terraferma, avrebbero continuato ad esistere soltanto nelle leggende, per mettere in guardia i bambini dall’esporre durante la loro crescita la propria anima a tutto ciò che la vita può riservargli. Non esistevano colpi che non si potevano sopportare, ma non esistevano nemmeno colpi a cui tutti potevano resistere.

La regione di cui si parla era prevalentemente ricoperta di boschi. Cipressi e querce si alternavano in quell’enorme tela che era il paesaggio circostante, qualche collina e un grande monte al centro dell’isola. A volte nevicava. C’erano pochi insediamenti umani, ognuno era perfettamente autonomo e indipendente. I villaggi – collegati da loro da strade interne alle foreste, ma, nonostante ciò, ben segnalate – erano abitati da autoctoni e naufraghi sopravvissuti, dati per dispersi, che accettavano l’aiuto degli isolani a patto di non far mai più ritorno nel mondo conosciuto. Non c’era alcun documento che attestasse questo patto, la loro iniziazione all’isola era segnato dal racconto della leggenda sull’ombra. “Noi che sappiamo dove siamo nati, ma non sapremo mai dove si muore” così si concludeva il racconto cerimoniale, reso in forma diversa rispetto a quello narrato ai bambini, dato che la maggior parte dei naufraghi aveva superato la maggiore età (che nell’isola si aggirava intorno ai 23 anni).

 

Tra gli abitanti del posto c’era un pescatore di nome Igor, un ragazzo sui 27 anni, smilzo, dagli occhi scuri e i capelli ancor più scuri. Igor aveva scelto di seguire le orme del nonno e aveva dedicato la sua vita al mare, lo stesso mare dove le anime perse sceglievano di inabissarsi per sempre. A volte nelle sue reti aveva trovato pezzi d’ossa, ma aveva fatto spesso finta di niente. “Ossi di seppia”, “denti di squalo”, “resti di naufraghi meno fortunati d’altri” diceva. A volte, qualcuno dell’equipaggio si avventurava nel tentativo di obiettare le sue valutazioni. “E se fossero pezzi di maschera?”. “Cazzate” rispondeva, “le maschere non esistono, racconti per bambini e folklore popolare”. Eppure, in cuor suo sapeva che non fosse così, suo padre stesso era diventato un’ombra, gliel’avevano nascosto, l’aveva scoperto per mano degli stessi mistificatori della realtà che avevano raccontato come fosse semplicemente morto di collera. “Di collera non si muore, io lo sapevo!” aveva urlato prima di prendere le sue cose in fretta e furia, cambiare villaggio e ricominciare vita.

Durante tutta la traversata della foresta, aveva sentito un prurito anomalo sul lato sinistro del volto. Inizialmente s’era spaventato che la sua anima non avesse retto quel colpo, poi diede la colpa agli insetti. “Cazzate per bambini” e da quel giorno non ci penso più. Igor viveva da solo, la sua giornata non era mai routinaria, i suoi ritmi mutavano in base alle condizioni del mare. “Anche se non si sente, il mare è sempre in tempesta” diceva prima di partire per una battuta di pesca. Le notti sui pescherecci erano le più dure, qualcuno aveva visto qualcosa, ma mai nessuno aveva il coraggio di dirglielo.

Poi un pomeriggio, il suo secondo gli disse: “Igor, devo parlarti, io non ce la faccio più”.

“Che succede Adrien?”

“L’altra notte sono uscito sul pontile, volevo verificare che una voce che gira tra i pescatori del porto fosse vera”

“Voce? Quale voce?”

“Igor… tu…”

“Io?”

“…tu hai il primo pezzo di maschera”.

Sapeva che Adrien non gli avrebbe mai mentito, si conoscevano ormai da 5 anni e lavoravano insieme da altrettanti. Lo guardò, un rivolo di lacrime gli sgorgò dallo stesso occhio che la notte si copriva d’ossa, sospirò e disse – come faceva sempre quando si parlava della maschera dell’ombra – “Cazzate”.

Adrien non osò obiettare, aveva già esaurito tutto il coraggio, rassegnato si mise a guardare il molo che si faceva sempre più avvicino. Quel giorno avevano pescato bene.

La notte Igor volle restare sveglio, all’1.59 si avvicinò allo specchio che aveva in bagno, tenendo il capo chino. Chiuse gli occhi, strinse i denti, li strinse così forte da sentire il rischio di poterli mandare in pezzi e alzò la testa, poi guardò lo specchio. Adrien non mentiva, un terzo del suo volto era coperto dalla maschera. La sua anima non aveva retto quel colpo. “Sono fottuto” “sono fottuto” “sono fottuto” iniziò a ripetere spasmodicamente mentre tremava dalla paura. Non dormì per tutta la notte, anzi, restò davanti allo specchio a scrutare la voce dei pescatori che prendeva forma e che aveva scoperto soltanto da poco. Ogni fantasma del passato era tornato, non avevano bussato, avevano sfondato le porta e preso d’assalto ogni centimetro del suo corpo. Poi il primo raggio d’alba, il sole e la maschera incompleta scomparve. La mattina non volle uscire di casa, lasciò una lettera sotto la porta di Adrien, demandandogli la gestione della barca e del relativo equipaggio. Lui aveva un viaggio da fare.

E così mentre Igor stava tornando al villaggio natale per cercare risposte, Adrien si svegliò, aprì la porta, apprese della delega e si diresse al porto per uscire in mare come ogni giorno della settimana.

Quella notte il grande blu si dimostrò tutt’altro che generoso, le onde avevano rimestato il fondo e alcune ombre arrivarono direttamente sulla barca. “Lo sapevo io lo sapevo che non era solo una leggenda” urlò Adrien. Furono i 5 minuti più lunghi della sua vita, se fosse entrato in contatto con una di loro per lui sarebbe stata la fine. Le ombre, infatti, cercavano sempre di privare gli altri delle proprie anime, desideravano recuperare ciò che ormai non sapevano di aver perso per sempre. Magari così si sarebbero liberati di quella maledetta maschera. Adrien, però, alla sua anima ci teneva più d’ogni altra cosa e si gettò in mare. “Meglio morire che diventare una dannata ombra”. Poi una seconda onda ribaltò l’imbarcazione, le ombre restanti furono sbalzate in aria per poi atterrare in acqua e affondare nuovamente. Dell’equipaggio si salvo solo lui, che si svegliò sulla spiaggia del proprio villaggio la mattina successiva sotto gli sguardi attoniti degli altri abitanti.

Ad Adrien però non importava nulla, perché, aperti gli occhi, aveva guardato la sagoma lasciata sulla sabbia: non sembrava un semplice volto. Il resto della sua giornata sembrò infinita, lui cercò di farla passare limitandosi a spiegare l’accaduto, omettendo ciò che davvero lo aveva costretto a buttarsi in acqua. “Un naufragio, uno sfortunato naufragio” diceva. E così venne la notte, anche lui aspettò le ore più buie per guardarsi allo specchio, anche lui aveva sul volto il primo pezzo di maschera. Sopravvivere aveva avuto un prezzo.

Intanto Igor era già di ritorno. Al suo villaggio natio, non solo si era sì riconciliato con chi un tempo aveva lasciato, ma aveva dovuto fare i conti anche con tutto il resto. La sua casa ormai era andata per sempre, venduta; parte della sua famiglia era diventata una serie di lapidi da commemorare e restavano davvero poche persone da cui pretendere risposte e chiarimenti. Durante quegli anni di distanza non aveva mai scritto nessuna lettera, mai provato a tornare anche solo per un giorno, aveva provato a lasciarsi tutto alle spalle e ora la sua vita stava provvedendo a regolare i conti. Tutto il passato lo stava travolgendo con la stessa violenza con cui il mare aveva inghiottito la sua barca.

“Mamma, mi è cresciuto un pezzo di maschera, era tutto vero” le aveva detto, ancor prima che quella povera donna, ormai anziana, potesse realizzare che il suo unico figlio era finalmente tornato.

“Figlio mio, io lo sapevo, una delle mie tante notti insonni t’avevo visto mentre dormivi beatamente senza sapere cosa gravasse sul tuo volto. Ora che sei tornat…”. Igor la interruppe, urlando “E non me lo hai detto?!” La madre rispose mesta con poche parole di rammarico e amarezza: “Io volevo solo proteggerti”
“Non si proteggono le persone tenendole all’oscuro, le persone meritano di sapere” disse ancora più amareggiato, poi abbracciò la madre, perché si rese conto che quella donna era ormai al capolinea della sua vita e pianse forte, pianse come non aveva mai fatto in vita sua e – soprattutto – per la prima volta da tempo davanti la donna che l’aveva messo al mondo. Lui non sarebbe mai più tornato, lei lo aveva capito. Quello era il loro addio. Deluso, amareggiato era tornato alla sua solita casa qualche giorno dopo il naufragio di Adrien.

Quella notte volle aspettare ancora una volta che si facesse sempre più buio, per potersi guardare meglio e imparare a convivere con ciò che ormai l’avrebbe accompagnato per sempre. Poi la tetra sorpresa, anche sulla parte destra del volto era cresciuto un altro pezzo di maschera. Stavolta non aveva avvertito nessun prurito. Era sconvolto, poi una voce. “Mi senti?” Non disse nulla, ma sentiva tutto. “La tua anima ha subito troppo”, gli sembrava una voce familiare, ma non capì. “Cosa potevo farci?” chiese sussurrando a denti stretti. “Niente – rispose la voce – a volte siamo semplicemente in balia degli altri, possiamo solo limitarci a subire e resistere. Non tutti resistono. A volte i figli provano a scappare dal destino di chi li ha preceduti, è lì che ci ricadono, quando scappano e si rifiutano di affrontare le cose”. “Avrei dovuto proteggerla meglio” disse rassegnato. “A volte si fallisce e basta, accettalo” e poi non parlo più.

Ad Igor non restava altro che andare a dormire. Si addormentò guardando il mare, lo stesso mare che si era preso tutto, tuttavia lui, ancora una volta, non aveva idea di ciò ch’era successo.

La mattina seguente si svegliò, ancora scosso dalla notte precedente. Confidava nella distrazione che gli avrebbe dato il mare. Arrivato al molo trovò Adrien ad aspettarlo.

“Ciao Adrien! Dov’è la barca?

“Igor, l’altra notte…”
“L’altra notte… cosa? E poi dove diavolo sono tutti?”
Adrien prese fiato, si gonfiò il cuore con tutto il coraggio che non aveva avuto quando sarebbe dovuto restare a fianco del suo equipaggio, perché sapeva che un capitano non dovrebbe mai abbandonare la nave, poi parlò. “Qualche notte fa un’onda enorme ha portato le ombre sulla barca, io non sapevo cosa fare, mi sono tuffato in mare mentre vedevo la barca cadere in balia delle onde. Non si è salvato nessuno tranne…”
“Te, vero?” disse Igor con la morte nella voce.
“Esatto. Io non ce l’ho fatta, le ho viste con i miei occhi, è tutto vero Igor, tutto! E poi…”
“Ah, c’è pure un poi! Bene! – esclamò con voce isterica Igor – Sentiamo…”
“Mi è cresciuto un pezzo di maschera”

Igor guardò l’amico, pensava ad una sola unica cosa: se lui non fosse tornato indietro, la barca non sarebbe mai uscita sotto la guida di Adrien, avrebbe potuto fare qualcosa, forse a quest’ora sarebbero tutti salvi, forse a quest’ora il suo amico non avrebbe avuto alcun pezzo d’osso con cui fare i conti la notte. Pensava, pensava troppo come sempre e puntualmente annaspava in questi pensieri.

“Adrien, amico mio, io ti perdono perché la paura a volte ci gioca brutti scherzi. Non ero lì, non posso giudicarti. Le nostre strade però si separano qui”
“Ma come?”
“Basta, basta… io sono arrivato al punto”

E si girò per andarsene via. Eppure, quella non era l’ultima volta che Igor avrebbe calpestato quel molo. Adrien lo guardò rassegnato, oggi si sarebbe preso del tempo per sé, da domani avrebbe cercato un nuovo lavoro.

Igor tornò a casa, chiuse tutte le finestre, spense tutte le luci. Fuori era giorno, dentro le ore più buie. Andò allo specchio e disse, rassegnato, “ho perso tutto, non ho nessuno, sono tuo”. Lo specchio pensò al resto: i suoi occhi videro la maschera completarsi. Non sentiva più nulla: dolore, rabbia, rassegnazione, amarezza. Tutto era scomparso, sentiva solo un grande vuoto e un conseguente desiderio, ancor più grande, di riempirlo. Nelle ultime 24 ore della sua vita cosciente scrisse due lettere: una per Adrien, doveva gli augurava il meglio, dove lo esortava a resistere, perché nel mondo chi perde dev’essere d’esempio a chi vuole vincere, “sii forte nella debolezza” gli scrisse; un’altra per la madre, molto breve “Io ti perdono, questa volta davvero, rimpiango solo non averlo fatto prima, ma nella fine c’è sempre qualcosa che ci dà una spinta unica, altrimenti introvabile” recitava una parte del testo. Questa volta il perdono non fu per resa, ma per amore.

Indossò l’impermeabile e – nonostante non piovesse – si tirò su il cappuccio. Non voleva essere visto. Lasciò ciò che gli restava sul retro della casa dell’amico insieme alla lettera. Gli lasciò anche quella della madre, le sue ultime volontà erano che lui la spedisse.

Poi andrò al mare e guardò il suo riflesso nell’acqua. “Avete vinto voi, ma non riuscirete a considerarmi vostro complice”. Non si sarebbe tuffato in acqua, come avevano fatto gli altri. Recitò il suo monologo assolutorio alle onde: “Ho capito, oggi ho capito. Non siamo sempre padroni del corso degli eventi, possiamo provare a resistere, a volte vinciamo, altre no. Io ho perso. La mia anima è troppo logorata. È tardi per essere forti. Vorrei poter riservarmi un destino migliore. So di non essere l’unico, ma ciò non mi consola. A cos’è servito scappare, se poi ho pagato comunque il conto? Addio mamma, addio Adrien, questo è l’atto conclusivo”.

Così tirò fuori un coltello e iniziò a sfregiarsi la maschera, fino bucarla. Urlava di dolore, ma nessuno poteva sentirlo. Soffriva e più soffriva, più faceva forza con la lama sulla maschera. Doveva dare un senso a quelle ultime 24 ore. Alla fine, ci riuscì: vide i pezzi di maschera cadere in acqua, vide il suo volto completamente nero. Si vedeva solo il bianco degli occhi, anche i capelli erano stati inghiottiti dal nero. E ora? La leggenda non diceva nulla in merito. Lasciò che il coltello cadesse in acqua e poi, piano piano, sentì il vuoto divenire sempre più leggero fino a sparire.

Da quelle parti, per caso, passava una vecchia donna. Aveva visto un uomo sul pontile blaterare qualcosa, ma l’età non riusciva ad aiutare il suo udito anzi. Poi non vide più nulla. Pensò che questo fosse l’ennesimo scherzo delle cataratte.

 

Quella notte Adrien, come faceva sempre prima di andare a letto dal naufragio di qualche giorno fa, era andato a guardarsi nuovamente allo specchio. Erano le ore più buie. Guardò lo specchio e accanto a lui vide un’ombra senza maschera, aveva con sé un coltello. Non riuscì a distogliere lo sguardo dallo specchio per la paura. “Io non ho più paura, alla fine ho vinto” sussurrò quella strana figura e con quello stesso coltello che impugnava sradicò il pezzo di maschera al riflesso a lui adiacente. Poi scomparve e rimase soltanto l’immagine specchiata di Adrien. Il suo volto era finalmente libero. In lontananza, poi, come se quella presenza non se ne fosse del tutto andata ebbe l’impressione di udire le seguenti parole: “Visto? Tutte cazzate”.

Francesco Raguni

 

foto di Danilo Duarte