«So di darvi un terribile colpo, ma è inevitabile. Imprecherete, mi maledirete, ma io mi unisco con l’uomo che solo dal mio cuore è stato scelto e da niente altro, né dalla convenienza, né dalla ragione».
Così scriveva nell’agosto del 1927, all’indomani della fuitina, Rosa Quasimodo, sorella del premio Nobel per la Letteratura e prima moglie di Elio Vittorini.
È una delle molte testimonianze storiche e non solo che ha caratterizzato un’epoca ormai conclusa, quella delle corrispondenze cartacee.
A fronte dei grandi vantaggi consentiti dal web, la possibilità di attingere alle fonti epistolari per ricostruire spaccati di vita pubblica e privata, storia e costume, ci è ormai preclusa, anche in virtù della aleatorietà e del velocissimo decadimento di quanto non possiamo toccare, rileggere, o gettare via. Nessuna malinconia. Ciò accresce, semmai, il valore di quanto ci resta e di quanto ancora dev’essere “svelato”.
Lontani dal voler intercettare confronti intellettuali tra studiosi, ha affascinato una testimonianza sentimentale nella corrispondenza tra Vittorini e la moglie, resa pubblica solo nel 1984 in appendice alle rievocazioni autobiografiche della stessa (Cfr. Tra Quasimodo e Vittorini, ed. Lunarionuovo, quando non era ancora una rivista). In realtà, sembrerebbe trattarsi solo di parte della corrispondenza, le lettere vittoriniane dal 1929 al ’36 e quelle di Rosa dal ’33 al ’34. Da ambo le parti mancherebbe tutto il periodo precedente al trasferimento di Vittorini a Milano e, leggendo tra le righe della storia d’amore e tra le celate ragioni del disamore, non si può che limitarsi a qualche ipotesi.
Comunque le cose siano andate e comunque sarebbero potute andare, a noi non è dato che limitarci alla compenetrazione nelle dolcezze di una vicenda umana che ha visto protagoniste due personalità del Novecento italiano.
I due si conobbero in seguito al trasferimento della famiglia Quasimodo a Siracusa, in un appartamento interno alla stazione ferroviaria in cui il capofamiglia, da capostazione, lavorava. Stessa sorte, nella stessa sede, era toccata al collega Vittorini senior e famiglia. Il figlio più grande, Elio, ribelle e irrequieto, era stato mandato a vivere a Benevento presso una zia e rientrava solo per le vacanze estive. Fu in uno di questi nostoi che si innamorò della giovanissima Rosa, ricambiato nonostante lei fosse promessa a un altro. La notte della fuga, con la complicità del di lui fratello Ugo, non furono accolti in albergo e trascorsero le ore che mancavano all’alba seduti sui gradoni in pietra calcarea del Teatro Greco, allora non recintato, dove ancor oggi noi siciliani ci rechiamo quasi in pellegrinaggio per seguire le rappresentazioni classiche.
Fu un duro colpo per la famiglia Quasimodo, che aspirava a un partito con una migliore posizione sociale e che era già reduce dalla notizia del matrimonio di Salvatore con una barista messinese. A quella missiva della figlia, il padre rispose con un gesto che oggi più che mai ci appare profanatore, sacrilego: in un impeto di rabbia, trovate in un cassetto le lettere che nel periodo del corteggiamento Elio aveva scritto alla figlia, strappò tutto.
Quello stesso gesto, a seguito di una forte lite di gelosia, sarebbe stato poi replicato molto tempo dopo dalla stessa Rosa con buona parte della corrispondenza che il marito intratteneva con amici e personalità dell’epoca e che aveva accumulato nel corso di anni. Lui trovò un cumulo ammonticchiato di carta al suo rientro da Milano, nella casa di Firenze dove si erano stabiliti dal ‘29. Persino noi, a quasi un secolo di distanza, ne proviamo indignazione.
Sopravvive il materiale successivo e parte degli scambi coniugali a cui sottrarre quanto, probabilmente per pudore, si è scelto di non destinare alla raccolta edita da Lunarionuovo. Tra le altre, troviamo lettere scritte quando Vittorini era stabile a Firenze per lavoro, mentre la moglie, prima che lo raggiungesse, era rimasta a Gorizia insieme al figlio e ai genitori, i quali avevano lasciato la Sicilia per la vergogna di quel matrimonio disapprovato da tutti. A quel periodo risalgono le notti insonni nello stanzino dell’appartamento dello zio che lo ospitava, i vissuti di profonda solitudine, la nostalgia per Rosa e il figlio e le preghiere di ricongiungimento. Leggiamo di come cercasse di trascorrere più tempo possibile fuori casa per non restare solo, andava alla sede della rivista Solaria, per cui lavorava, anche per scrivere una lettera, e la domenica, in cui gli amici erano in casa e il giornale chiuso, era il giorno peggiore della settimana. Si diceva disposto a lasciare l’amata Firenze pur di riunirsi con la famiglia.
«Ma tu mi pensi, mi vuoi bene, hai desiderio di vedermi? E Giusto si ricorda di me?»;
«La mia sofferenza è fatta esclusivamente della tua lontananza».
Memore della non celata né mutata avversione dei suoceri verso di lui, giunse a individuare la responsabilità di quella prolungata separazione nel loro ascendente sulla figlia.
È certo che, nonostante le beghe e i lunghi silenzi di Rosa, i suoi «bovarysmi» (come Vittorini ne definiva i comportamenti), lui cercò sino all’ultimo di salvare il matrimonio. Emerge dalla corrispondenza ma anche dai bigliettini superstiti che era solito farle trovare dopo i litigi, perché attraverso la scrittura sapeva esprimere meglio ragioni e sentimenti. E quando, dopo diversi anni, nonostante le preghiere e l’amore di lei, Elio volle restare solo, la pregava «bacia Giusto per me, non dirgli che sono cattivo».
Ancora una volta dagli scambi epistolari tra i due emergono dettagli che sarebbero rimasti ignoti, relativi agli anni della militanza di Vittorini nella Resistenza, prima, e del periodo della prigionia e della latitanza, dopo. Mussolini aveva ordinato che gli si sparasse a vista. A nasconderlo fu la donna per cui aveva perso la testa molti anni prima a Milano e con cui avrebbe trascorso il resto della sua vita, Ginetta Varisco. Le due si scrissero più volte, per chiarire le posizione reciproche e per scambiarsi notizie di Elio, l’una, e dei figli, l’altra. La milanese raccomandava a Rosa di tenere i bambini lontani da Milano, ma ciò non impedì alle milizie fasciste di trovarla ugualmente e arrestarla per estorcerle informazioni. Annotarono tutti gli indirizzi che trovarono in casa. Lei non parlò neppure quando le fecero una foto-segnaletica per deportarla a Mathausen. Il fratello Salvatore (Totò) non poté aiutarla, la liberarono solo quando capirono che sarebbe stato inutile trattenerla ancora e seppero che il figlio era gravemente malato. Una volta a casa, scrisse a Elio di stare lontano da tutti i luoghi in cui avrebbero potuto cercarlo, compresa la casa di Firenze dove in quei giorni si nascondeva l’amico Umberto Saba in fuga con la moglie dalla persecuzione degli ebrei. L’allerta giunse in tempo anche a loro attraverso gli efficienti corrieri della Resistenza. (Un governo fascista nel ventunesimo secolo avrebbe ricorso alle intercettazioni telefoniche per localizzare gli spostamenti).
Così, Vittorini e la Quasimodo, nonostante avessero finito per dividersi (tra contingenze della vita, carattere e scelte di lei, un’altra donna nel cuore di lui), non solo restarono in contatto ma continuarono a volersi bene (pur non riuscendo Rosa ad andare a trovare la nuova coppia che una sola, dolorosa, volta). Nonostante anche lei ebbe un nuovo amore, la vitalità le si spense progressivamente proprio a partire da quella prima separazione, a cui seguì la morte prematura del primo figlio e, qualche anno dopo, l’altrettanto prematura morte di Elio (tre giorni dopo aver sposato Ginetta); poi fu il turno di Salvatore e del secondo marito. Di lei non restò che una donna sola, «una piccola siciliana dei primi anni del secolo» (come si definì lei stessa), con una vita che meriterebbe un film, o un romanzo.
Giulia Sottile
Postilla: purtroppo, non troverete “Tra Quasimodo e Vittorini” in libreria, perché le copie dell’allora tiratura limitata sono andate esaurite e non sono più state fatte ristampe, nonostante le richieste. Tuttavia, chissà che non possiate trovare qualche copia di seconda mano, magari messa in vendita da chi evidentemente poco sa dei personaggi, o una copia in biblioteca da prendere in prestito. Chissà che qualcuno un giorno davvero non si rimbocchi le maniche sull’immenso epistolario per la stesura di un romanzo biografico. Nell’attesa, invito – specialmente i bibliofili – alla caccia al tesoro!