Capita a tutti di parlare a se stessi. Ricordo qualcuno osservare che non è un buon segno. Lascerebbe il sospetto di disturbi mentali. E può essere vero. Ma capita a tutti di parlare da soli, ad alta voce, con se stessi, appunto. E senza tener conto del pericolo che si corre di essere ascoltati. “I muri non hanno orecchie ma sentono!” Traduco dal dialetto perché è quanto ammonisce in siciliano, la sapienza siciliana. E, sicuramente, la diagnosi che tira in causa la sanità mentale si fonda sul valutare il pericolo di essere ascoltati, il rischio autolesivo del parlare a se stessi ad alta voce. Bene che vada si perde di credibilità presso chi viene a conoscenza, direttamente o tramite “sentito dire”, di una grave debolezza come il parlare da soli, a se stessi.

Alberto Salustri (Trilussa), in uno dei suoi acquerelli in versi, descrive se stesso nell’atto di rivolgere calorosi saluti a maiali e somari, e si giustifica subito della folle trovata, aggiungendo: “Certo ‘ste bestie non m’intenderanno / ma io ho avuto la soddisfazione / di dire liberamente quel che sento / senza il pericolo di finire in prigione”. Altri tempi, quelli delle favole in versi del poeta romano, in realtà sarebbe fuori d’ogni buona fede razionale, oggi come oggi, rischiare la galera per aver ingiuriato, poniamo, un ex presidente del Consiglio italiano con un “Assassino”. Eppure è avvenuto, l’altro ieri. Sono le parole ad aver perso il loro significato?  Paese che vai costumi che trovi, tempi che vivi realtà che vi trovi.

  1. Capita di riflettere sul ponte Morandi, crollato la vigilia dello scorso ferragosto. Riflettere leggendo, giorno dopo giorno, le orme lasciate dai passi lenti, lentissimi, che si muovono verso la verità. Come reagire, stando al calduccio domestico a fronte di chi ha dovuto abbandonare l’abitazione senza il tempo di poter portare un fazzoletto. Sì, ci si immedesima, forse un po’ si prova umana pietà. Ma sono emozioni, estemporanee. Parole. I fatti, la realtà sono altri a viverla. E fingiamo di ignorare i morti. I significati della tragedia di quel giorno a Genova. Sono trascorsi quarantacinque giorni, rispetto alla data di questi miei appunti, e se le parole, le visite ufficiali delle Autorità maiuscole, si trasformassero in rondoni, il mondo intero avrebbe il cielo coperto di squittenti voli bruni.
  2. Chi segue le informazioni giornalistiche e televisive scopre, compiacendosene, come, con frequenza che incoraggia a sperar bene per l’Italia, e doppiamente per i siciliani, doppiamente interessati, si viene a conoscenza di maxi-retate di mafiosi e maxi sequestri di beni ai mafiosi (o presunti tali). Sono momenti in cui l’emozione di chi si trova ad ascoltare la notizia induce ad alzarsi per applaudire, se si è seduti, a sedersi per l’empatizzare che provoca tremarella alle gambe, al solo pensiero di quanti pericoli hanno corso gli investigatori, i carabinieri, i poliziotti, i magistrati, i giornalisti dei quotidiani cartacei (scripta manent!) e quelli delle informazioni via etere. Sono anni di notizie di sequestri e maxisequestri ai mafiosi. Una realtà che non finisce. Anzi sembra affinarsi, e giorno dopo giorno rendersi sempre meno vulnerabile. Mimetizzarsi. C’è un paragone che mi viene in mente continuando in questo monologo: i vermi nematelminti. Li spezzi e ogni parte che viene spezzata si trasforma automaticamente in due nuove vite.
  3. Poi c’è la sorpresa che fatalmente viene procurata dall’errore umano (sbagliano gli asini che bevono solo acqua, ci si può immaginare gli uomini, che qualche bicchiere comunque lo bevono, se non altro per aiutare la digestione). Soccorre la legge dei grandi numeri. Purtroppo. La perfezione non è tra le prerogative concesse all’umanità. Infatti capita che a ogni tot di sequestri con “mostro in prima pagina” ci scappa un congruo opposto tot di innocenti che ne vengono fuori a testa alta ma anche a vita rovinata. Ma la statistica è una scienza e ha le sue leggi misteriose. E bisogna tener pazienza. La pazienza di chi, costretto a capire che non c’è nulla da capire, gratta-gratta, si trova a dover valutare il danno che viene procurato, da tante azioni giudiziarie ineccepibilmente fondate sul “diritto della colpa (spesso presunta) e della pena” e orgogliosamente etichettabili come top di azione giudiziaria, non solo dai tempi biblici della Giustizia, giustamente al riparo del detto della gatta frettolosa che partorisce gattini ciechi, ma della summa iniuria di provocare danni economici non più al presunto o vero mafioso, cui viene sequestrata un’azienda importante istituzionalmente, spesso rappresentativa  persino di linee culturali, addirittura di una “civiltà” e, dulcis maximum, mammella nutriente di intere generazioni pregresse di professionisti, che hanno passato la mano a quelle attuali di padri di famiglia, adesso spinti sul baratro di un domani incerto. È una linea di esiti che sembrano manovrati dalla mano diabolica del caso che ama il “tanto peggio tanto meglio”.
  1. Un monologo autunnale (tra l’altro) come il mio non può essere catalogato voce che grida nel deserto, infatti chi parla con se stesso, anche se, come ho scritto prima, può capitare che venga sentito, ascoltato, magari per essere giudicato con problemi d’igiene mentale, non può sentirsi legittimato né da un deserto che non c’è, né dalla propria voce. Perché è ben altro che un deserto un Paese dove crollano i ponti e dove si susseguono i sequestri di beni a mafiosi o ritenuti tali. Niente voce che grida e niente deserto dunque, ma il desiderio di un Paese dove non ci sia più bisogno di voci che gridano, né di afonie che mugugnano. Forse quel minimo di buon senso generale del genere che fece suggerire, prima a Terenzio e poi con maggior eco a Cicerone, la sensata locuzione del “Summum ius, summa iniuria!”

mariograssoscrittore.it