“Moto perpetuo epocale della vita culturale ragusana, quasi una dimostrazione vivente del concetto quasimodiano di “operaio di sogni”, (…) dalla genialità inventiva e dallo spirito di missione e servizio”, scrive Mario Grasso nella scheda critico-analitica che introduce lo spazio riservato alla poetessa modicana Grazia Dormiente in “POETI IN e DI SICILIA” (2018, Ed. Prova d’Autore). E ben ne sintetizza il profilo umano oltre che letterario.
Grazia Dormiente può a ragione essere considerata uno dei maggiori poeti siciliani contemporanei. Sono solita evitare affermazioni del genere, tanto più quanto si considera il contesto socio-culturale regionale, quello del detto “in Sicilia ogni testa è un tribunale” e dell’efficace definizione brancatiana di “gallismo” da estendersi a ogni ambito dell’esistenza umana. Qualche tempo fa uno studio statistico ha stimato la presenza nella Trinacria di ben 1415 poeti], escludendo il “numero oscuro” che naturalmente destina la quota a crescere vertiginosamente. Un siciliano su 10 ha poesie nel cassetto? Va da sé che il lavoro di curatela del suddetto volume sia stato parecchio laborioso, seppur Grasso si possa definire una sorta di “guardiano perpetuo” del panorama letterario siciliano sin dall’inizio, negli anni ’50, della sua militanza come addetto ai lavori. Eppure anche nella cooptazione di una crestomazia risiedono logiche volte alla testimonianza di una realtà storico-culturale che non può che essere poliedrica sotto tutti i punti di vista. Allora, seppur il nome della modicana compaia tra gli Autori selezionati per questa iniziativa letteraria, a gran voce ci preme precisare: Grazia Dormiente è uno dei maggiori poeti siciliani contemporanei.
È una donna che ha costruito e continua a costruire instancabilmente, dopo una vita intera passata a studiare, formare, proporre. La sua attività culturale nel territorio per tutta la seconda metà del secolo scorso e ancor oggi è stata spinta dall’amore per la propria terra e da un senso civico che si può dire vero e proprio spirito missionario. È una donna che ha lottato per le proprie idee ed è oggi un Faro della cultura siciliana, tanto che rispetto alla qualifica di etno-antropologa si addice meglio quella di intellettuale, nella sua accezione distante dall’inflazione dei significanti. La si conoscerà di più, oltre che per le numerose pubblicazioni saggistiche, in quanto “mente” del Museo del Cioccolato di Modica, di cui è stata ideatrice e cofondatrice. Tuttavia, leggendone le poesie è possibile ritrovarne la personalità, la stessa che le ha permesso nel tempo di essere “operaio di sogni”, termine che fa pensare alla formica operaia che ben si addice anche alla sua corporatura fisica minuta. Queste righe, di sintetica introduzione per chi si accosta da amateur a questo pezzo di cultura siciliana.
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Dormiente poeta esordisce nel ’90 con “Ciottoli”; seguono “Vaghe presenze”, “Versi”, sino a “L’alfabeto delle api” (2010) che lei stessa definisce “scherzo letterario”. Non sappiamo se è in preparazione una nuova silloge, ma nel volume collettivo “POETI IN e DI SICILIA” confluiscono anche diversi inediti.
Tratta da “Ciottoli” compare la splendida poesia intitolata “Modica”, che è omaggio alla propria città di origine e che mostra sin da allora la particolare sensibilità della sua Autrice verso certi temi e verso un determinato modo di guardare alle cose, un modo che tiene conto della vita che sempre abita anche in una pietra. Non è un caso che antropomorfizzi spesso natura e oggetti. Proprio “Modica” inizia con «La rupe veglia alta sulla valle», come fosse un grosso animale a guardia di qualcosa di prezioso, e più avanti «L’ombra dell’ombra del Castello / silenzioso e regale abbraccia / ora le case e i vicoli assolati». Ma “Modica” è tutta bella, dalle tinte un po’ oniriche nel ricordo di una storia, quella della città, resa quasi un dolce sogno dal trascorrere del tempo. Ma per restare all’antropomorfizzazione, sempre da “Ciottoli” è tratta “Il verde gigante”, col suo enorme carrubo su cui crescono corone di foglie bucate, destinate a ricoprire i sogni (come fossero teste – ma d’altronde è lì che albergano), per poi divenire esse stesse parti di una chioma arruffata punteggiata di «perle di verde brillante», che è poi la rugiada.
Da “Vaghe speranze” è tratta “Dune”. «Nelle spiagge del Sud dondolano / le ultime dune», immagine fortissima questa, che, oltre a creare un movimento quasi reale, soffia un anelito di vita negli stessi granelli di sabbia, rendendoli senzienti. E all’atmosfera un po’ di ozio dell’intero componimento anche loro sembrano compartecipare, come un bambino sull’altalena in un pomeriggio d’estate. Poi, più avanti, «sciolgono al vento ombre e carezze / denudando sentieri avvampati». Questa è la siccità? La calura spoglia della vegetazione i sentieri, già scaldati dal sole?
In “Abon-Rash”, estrapolato da “Occasioni”, le borrane chinano il capo tra bisbigli di preghiera, implorano amore e solarità ai margini delle strade. Ma l’immagine più efficace la troviamo nella poesia, che è poi una delle più riuscite della rosa scelta per questa crestomazia, intitolata “Inno al Mediterraneo”. Qui la Dormiente scrive: «Azzurro titano / dalle braccia spumose / grondanti mitiche risonanze», e si sente già il fragore delle onde infrangersi sulla costa; poi più avanti: «dissemini fiorite stagioni. / Compagno del vento / raccogli sussurri e preghiere / e gioioso infrangi il silenzio / di obliati tempi e castelli». Alcuni studi hanno riscontrato come l’acqua abbia una memoria, e ciò non escluderebbe dunque quella del mare, che conserverebbe nelle sue particelle la storia di popoli ed epoche diverse, memorie trasportate con le correnti da una costa all’altra, nei secoli. E la poesia continua: «Antico veggente / ritessi miraggi e speranze / nei sentieri ammalianti delle tue onde / scintillio di gemme ai naviganti. (…) ripeti del cielo / la cosmica libertà».
Assolutamente inedito è l’omaggio della poetessa alla sua seconda città, quella adottiva, che è infatti intitolato “Pozzallo, città in cammino”. Cito solo le strofe quasi-conclusive: «Pozzallo, città in cammino / rimargina le ferite della memoria / inondando d’in-audita fraternità / i notturni lampi dei migranti, / iridata marea / di dolente umanità». Qui la città “inonda” i lampi (quindi il cielo), come se fosse un grande faro la cui luce brilla più delle saette segnale di tempesta, pericolo. Lì dove la realtà vede come unico agente d’inondazione il mare, su barche e gommoni, la città si fa il vero mare, più forte persino degli agenti atmosferici, «Pozzallo portuale, / mercantile, / balneare, / pizzaiola, / civettuola, / civile……..». E non è questa la sola poesia in cui Grazia Dormiente manifesta, unitamente al proprio concreto operato, uno spirito civico-umanitario.
Che dire poi di altre immagini sparse per tutte le sillogi sin dagli esordi che confermano sempre più come la poesia risieda nella commistione di immagine e suono? Se la poesia è immagine, è per esempio nelle suggestioni di Grazia bambina nell’osservare al lavoro il padre fabbro, quando nella penombra in cui forgiava i ferri roventi si accendeva uno scintillio di stelle. Altrove, le campagne sono «riarse scoppiate di sole», come fossero popcorn che, raggiunta una certa temperatura, scoppiettano. In un’inedita sono i verdi baccelli a sgranare tempo e fatica e non viceversa.
E se, poi, la poesia è suono, la Dormiente ne fa studio e gioco. Se torniamo alla poesia “Dune”, troviamo vocaboli onomatopeici, tanto in disuso quanto estremamente efficaci nel catturare una precisa sfumatura di senso: è il caso dei verbi slamarsi e borbogliare (tra borbottare e gorgogliare). Altrove un neologismo: «gesti e posture / tiptano / storie di siculo respiro», dove il caratteristico suono ritmato provocato al tiptap viene trasformato in verbo. Ciò si sposa con una scorrevole musicalità che attraversa tutte le poesie. “Inno al Mediterraneo” è piena di assonanze e qualche consonanza, disposte all’interno di tempi che ne suggeriscono il ritmo. L’importanza della parola è poi racchiusa in un inedito, “Relitti”, che riporto integralmente: «Nella città plasmata dal mare / anche le parole / scivolano / e, inabissandosi, / si disperdono tra relitti millenari.» È alla lingua siciliana che si riferisce, nel suo essere lentamente dimenticata per riemergere poi ogni tanto a piccoli pezzi? Continua infatti: «Intrise di salmastra veggenza / emergono / e, sfrangiandosi, / a solari latitudine / liberano / dei popoli insabbiate sonorità».
Anche questo rapporto con il linguaggio può essere compreso nel personale impegno nei confronti di una civiltà, quella siciliana e nello specifico iblea, che vuol tener viva e tramandare con valore aggiunto. È quindi la poesia anche pretesto di ricerca etno-antropologica. È il caso della già citata “Abon-Rash”, che ripercorre le origine etimologiche della Borago officinalis, pianta erbacea conosciuta come borragine, di cui Grazia Dormiente appoggia l’origine araba. Il nome si trasforma in borrana e poi nel latino medievale borrago e nell’ibleo vurraina. In “Vieni con me” ci sono poi tre versi che riassumono un importante pezzo di storia del cioccolato, («arabici lasciti / inzuccherano / amaro cacao»), tema che verrà più apertamente ripreso in “Theobroma cacao”, tra cantori piumati, principesse tolteche, sacerdoti, conquistadores e pirati. Un pezzo di storia nascosto tra i versi.
E poi un pezzo di storia contemporanea, che vede protagonista non solo Pozzallo ma tutta la Sicilia, è racchiusa anche in “Sguardo meridiano”, in cui dalla «salmastra nebbiosità» si approda da altre terre, i passi sono «nudi» e «sospesi / tra elegie e lamenti, / che all’umanità migrante, / come al mare, affidano / il canto della vita».
Giulia Sottile