Pochi sono coloro che ne apprezzarono e ne apprezzano la produzione perché nessuno si salva dall’ira del “maledetto“, nemmeno il popolo, sebbene lui sia sempre stato dalla parte del più debole proprio in virtù della sofferta realtà ingiusta che lui vorrebbe riflettesse l’uguaglianza in un azzeramento delle classi sociali mentre invece si assiste al consolidarsi di esse. Ebbene non ignora però quelle dinamiche che vedono protagonista la massa – è quello il periodo della psicologia delle folle, la fortuna di studiosi come Le Bonne, più vicini forse alla logica della giustificazione che della dimostrazione, forse anche in funzione opportunistica, è quello il periodo del Futurismo – ponendosi tuttavia in una prospettiva diversa che richiama echi della scuola della psicologia umanistica, quando dice“se c’è una cosa che il popolo detesta, è la libertà. Gli fa orrore, non la può vedere“. Ce n’è pure per la Bibbia, “il libro più letto del mondo… più porco, più razzista, più sadico“, e Lanuzza riflette in questi termini: “E perché mai si dovrebbe credere in un Dio che, sorvegliando da lassù, discrimina tra fedeli e non fedeli alla Chiesa!?“. Jean-Paul Sartre è “uno stronzetto“, “gran culorotto”, “piccola schifezza assatanata” eccetera (lo scrittore lo aveva criticato e accusato appellandosi al contenuto ideologico della sua produzione letteraria).
E’ a questo punto che non si può non toccare il tasto dell’antisemitismo che è proprio quanto compromette l’intera carriera di Cèline scrittore. Leggendo tra le righe viene spontaneo, tuttavia constatare che – ideali e convinzioni a parte – fondamentalmente Céline – ma non si vuole qui correre il rischio di liquidare in due parole un mondo ben più complesso – era un uomo scontento, che come tanti altri suoi contemporanei scontenti individuava il capro espiatorio negli ebrei e nei massoni, rintracciando in loro la responsabilità, ma quando seppe cosa era accaduto realmente nei campi di concentramento, “ne è stato orripilato” ricorda la moglie, sebbene non si fosse nemmeno allora esposto più di quanto l’ampiezza del suo passo permettesse. Ma lui stesso dichiara che all’epoca dei fatti non sapeva nulla di quello che apertamente definisce “atrocità” e non ne seppe nulla se non alla fine della guerra. L’obiettivo della sua produzione letteraria non era quello di condannare gli ebrei ma di “lanciare un monito contro l’entrata in guerra della Francia” di cui essi riteneva fossero i responsabili, mai lui istigò a uno sterminio che tra l’altro non era nemmeno immaginabile all’epoca dell’uscita di tre dei suoi romanzi oggetto dei più accesi dibattiti in materia di antisemitismo e più tardi antisionismo (termine che però deve essere reso oggetto delle più opportune distinzioni): Bagatelle per un massacro, La Scuola dei cadaveri e I bei pasticci. C’è da dire però molto sulla storia personale di Céline che impatta tragicamente sempre con ebrei che di certo non lo aiutarono nella sua carriera artistico-letteraria, né gli resero giustizia. Il suo errore fu quello di generalizzare a tutto un popolo quanto riscontrava in contesti circoscritti: tutto, persino l’arte, non poteva che essere in pugno ad una cerchia elitaria, razzista a sua volta. Lanuzza ricorda come un copione teatrale da lui scritto fu respinto dall’impresario del teatro al vaglio del quale sarebbe dovuto passare, ebreo di Leningrado. Dirà degli ebrei “padroni assoluti del mondo“, razzisti che giudaizzano la cultura e l’arte. “Vi s’aggiunga il carattere – dicono collerico – dello scrittore, livoroso contro dei critici ebrei all’origine dell’insuccesso della sua commedia La Chiesa e dopo che l’amata Elizabeth lo lascia andando a sposare in America l’ebreo Ben Tamkel. Senza trascurare l’episodio del suo licenziamento del dispensario di Clichy e la sostituzione con un medico israelita“. Fu per le sue posizioni antigiudaiche accusato di collaborazionismo soprattutto negli anni dei nazisti in Francia con il governo di Vichy, ma lui rifuggiva da ogni sorta di strumentalizzazione, ogni assoggettamento o prostituzione, in nome di quella libertà che era la sua stella polare, tanto che dopo il 1943 non vorrà più ristampare i suoi libri proprio per non fare la fine del superuomo nietzschiano stendardo di una proclamata superiorità ariana insieme ad un darwinismo sociale su altro versante impiegato. Ma c’è dell’altro: l’avversione per l’autoglorificazione. In un intervista che Lanuzza cita, Céline afferma: “Ho depositato il manoscritto senza il nome dell’autore e senza l’indirizzo. Casualmente, l’involucro era fatto con un foglio che era servito alla mia domestica per avvolgerci le pantofole; c’era un’etichetta. E’ così che s’è saputo il mio nome ed è per questo che ho assunto uno pseudonimo, perché me ne infischio di me stesso come dei premi e del lavoro letterario”. Talmente lui grida disperatamente alla libertà, talmente la rivendica, che non può non odiare la scuola, “fabbrica di nozioni che glorificano il Capitale“. Dunque è da rifuggire ogni accusa di collaborazionismo nazifascista come qualsiasi tipo di clientelismo.
“Tutto è contraddizione in quest’uomo” e infatti in lui si può parlare di “antisemitismo anticapitalista“. Ma è irrinunciabile la necessità di leggere tutto questo in una prospettiva storica, vuole dirci Stefano Lanuzza, perché “stampati nella prima metà del XX secolo e colpevoli d’imperseguibili reati di opinione, essi sarebbero da leggere non solo come esercizi polemici o fenomenologie di emozioni in contrasto con gli ordinamenti obbligati, ma anche come produzioni che possano far discutere sui rapporti tra Storia e verità”. Ma “riconosciuto il mortificante antisemitismo di Céline” scrive Lanuzza, “e distinguendo la letteratura da oltranze ideologiche, l’opera céliniana è oggi da contestualizzare in frangenti della vicenda storica europea caratterizzati da un’avversione per l’ebreo e da campagne d’opinioni identificanti anticapitalismo e antisemitismo […] appare allora troppo facile o distraente gravare in esclusiva Céline del ruolo di capro espiatorio d’un antisemitismo che nella prima metà dei novecenteschi anni Quaranta è, non solo nella Francia di Vichy, così diffuso e sistematico da credersi ammissibile“.
Lanuzza allora sente il dovere di ripercorrere storicamente sino ai giorni nostri quello che è stato ed è l’antisemitismo che, come già detto, va distinto dall’antisionismo. Infatti spesso, successivamente al crollo dei totalitarismi e alla presa di coscienza degli abominii, non si farà più ricorso ad istanze eugenetiche per contrapporsi ad un popolo storicamente sempre avversato, bensì alle politiche militariste che lo stesso giovane stato d’Israele attua in Medio Oriente, aspetto del suo agire politico che ha comportato la rottura di Israele con le sinistre europee, ribadisce Lanuzza, che argomenta questo aspetto importantissimo con stralci tratti da documentazioni quali giornali nazionali italiani (la Repubblica, il manifesto, l’Espresso) ed esteri (Ha’aretz, Suddeutsche Zeitung), che danno spazio alle voci di scrittori e studiosi di tutto il mondo. “In Israele” cita Lanuzza “la democrazia è solo per gli israeliani”,senza dimenticare di sottolineare la condizione dei palestinesi che cercano di vivere senza il terrore della morte nella Striscia di Gaza, “prigione a cielo aperto”, “ghetto” come lo è lo stesso stato d’Israele sebbene esso in chiave autodifensiva/aggressiva. Riporta il saggista le parole di molti tra coloro che si espressero a proposito della Shoah – tragedia dell’umanità, espressione della decadenza morale e non solo – in relazioni agli odierni rapporti internazionali: “L’ossessione della nuova Shoah dietro la porta scatena processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimando un”industria dell’Olocausto’ che fa un uso strumentale e ricattatorio della memoria dell’immane catastrofe per fini di propaganda“. Ma, ecco, questa forse è una digressione, una parentesi – seppur ampia – in cui Lanuzza abbandona momentaneamente quell’ottica che vuole descrivere dall’esterno, per addentrarsi a pieno nel clou di una questione tutt’oggi scottante, senza il timore di sporgersi pericolosamente. Potrebbe sembrare che il saggista a questo punto abbandoni il suo atteggiamento super partes mantenuto per tutto il corso della trattazione, eppure tale non appare più nel momento in cui ci si accorge che lui non fa che constatare la realtà oggettiva, sottolineando come Israele fu “voluto anche dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) per il controllo del Medio-Oriente” (asserzione che avrà fatto imbestialire non poca gente). Allora “appare equivoco voler tacciare di antisemitismo quanti criticano le vessazioni sociali e le prevaricazioni territoriali, la politica armata e l’impunità internazionale d’Israele che infrange le convenzioni tra gli Stati. Non si cada nel gioco di assimilare surrettiziamente antisemitismo e antisionismo“, aggiunge Lanuzza citando lo storico Yakov M. Rabkin dell’Università di Montreal. Il puntuale a cuto saggista, a questo punto non può, parlando di Céline, non spezzare una lancia a favore di un Gunter Grass, Nobel per la letteratura nel 1999, proclamato “persona non grata” nel 2012 dal governo israeliano dopo l’uscita della nota poesia Ciò che va detto (caso, questo, in cui di antisionismo si parla), in occasione delle questioni attorno all’atomica. Sempre in contesto israeliano si giunge, in occasione del Festival d’Israele di musica classica, alla proibizione dell’opera La Valchiria di Wagner, ci ricorda Stefano Lanuzza, per via dell’antisemitismo dell’autore. Non occorre allora specificare quante riflessioni vengano in mente e quante deduzioni si possano fare, dunque, sul caso Céline. Ma questo excursus che potrebbe sembrare dirottare il lettore verso una più politicizzante oratoria vuole in realtà mettere in discussione quanto sinora si è detto a proposito del protagonista degli studi lanuzziani, che deve essere compreso tenendo conto anche delle consapevolezze oggi conquistate (come quelle che ancora non vogliamo afferrare). Oggi, che si applaude a uomini che al tempo furono, sì, a libro-paga dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Céline – questo di lui si può dire a voce alta – era libero, “assolutamente LIBERO, e non pagato“. Céline della libertà…
Ma questo stesso excursus vuole anche dirci quanto la realtà dei fatti non sia sempre semplice da scovare, quanto la fortuna di Céline dipese fortemente dalla cultura del tempo che visse, da conflitti che prescindevano dallo stesso autore, quanto ancora una volta siamo vittime di una censura che mette da parte l’arte, quella autentica (Wagner è un caso davvero eclatante), forse per timore che l’uomo non abbia perso il vizio di essere profondamente e pericolosamente corruttibile nell’animo. E’ di noi stessi che non ci fidiamo? Giulia Sottile –