(risposta al prof. Leotta)

Talvolta, forse ieri più di oggi, accade che il testo di una canzone sia poetico e musicale di per sé, al di là della melodia con cui è musicato e dalla quale è, invece, spesso messo in ombra, per “accostamento sincronico” e dunque “sovrapposizione”.

Pizzicati dalla provocazione di Antonio Leotta attraverso l’articolo dei giorni scorsi apparso su Lunarionuovo (vai all’articolo), non esitiamo a cogliere al balzo la palla del confronto atteso, tanto più quanto le sue riflessioni e la chiave di lettura proposta s’intrecciano a quanto da tempo è sotto la luce dei nostri microscopi. Per l’opportunità creata –e per l’originale trovata nella formulazione di un nuovo modello descrittivo – ringraziamo Leotta.

Queste le premesse, a cui però non segue di certo una dissertazione chiarificatrice capace di fornire risposte e formule vincenti per evitare “sovrapposizioni” tra le diverse forme artistiche, rese così solo parzialmente fruibili. Ciò che Leotta ha colto chiama in causa l’antica querelle sull’ambiguo confine tra la poesia e la canzone, di non facile risoluzione. È chiaro che in questa sede intendiamo prendere in esame il concetto di poesia nella sua definizione più comunemente intesa e più strettamente riguardante la creazione di accostamenti di parole e frasi in versi secondo precisi criteri o leggi, come ad esempio quelle metriche, e veicolanti sia una componente semantica che fonetica, dal contenuto sia informativo che emotivo. Questa precisazione è volta alla distinzione da un’accezione di poesia più ampia che ha a che vedere con la sua stessa radice etimologica, che è il greco poieo (creare, fare) che può rimandare a una forma espressiva e comunicativa ma anche a un modo di essere al mondo. Questo spiega anche la concezione di Oscar Wilde dell’arte e della vita. Noi però ci discostiamo da questa permeabilità per restringere il focus speculativo e per constatare quanto in effetti continui e restare ambiguo il confine di cui sopra.

Possiamo a questo punto immaginare i due fronti belligeranti in un ipotetico parlamento letterario. Una fazione potrebbe essere idealmente composta dalla stessa commissione dell’Accademia Reale di Svezia che l’anno scorso ha conferito il Nobel per la Letteratura al cantautore Bob Dylan, e potrebbe argomentare che la poesia nasce musicata, sin dall’alba dei tempi, quando gli aedi di tutto il mondo cantavano nelle corti e nelle piazze, accompagnati dal suono di uno strumento, le gesta degli eroi del momento, il più delle volte dei reali, e quelle storie venivano tramandate di generazione in generazione e rese ballate proprio per andar incontro all’arduo percorso delle tracce al momento di affiorare dalla memoria a lungo termine. Diletto estetico e tecnica mnemonica. La stessa fazione potrebbe poi ricordarci della Scuola Poetica Siciliana (che tra gli altri meriti ebbe quello di essere, ben prima della Divina Commedia, la prima officina della lingua italiana) animata – e finanziata – dalla personalità illuminata di Federico Secondo di Svevia. A Palermo si confluiva da tutta la penisola e i poeti di quella volta erano giullari e menestrelli.

A questo punto possiamo immaginare anche un fronte opposto, tuttavia, che sostiene come ciò che è stato non può svolgere funzione di legge universale né tantomeno fare da Cassazione delle forme d’arte, dal momento che il mondo è plastico come l’essere umano e dunque le sue modalità espressive, il funzionamento della sua mente e i canoni estetici. Aggiungerebbe che la poesia scritta riesce in modo esaustivo a rendere la bellezza fonica e il ritmo, citando Antonio Leotta col dire che se la musica si esprime prevalentemente nel tempo, la poesia lo fa nello spaziotempo. Se leggiamo il testo di una canzone privo del suo accompagnamento potremmo non trovarvi nulla di particolare, mentre potrebbe venirci spontaneo leggere un testo poetico secondo determinate cadenze, pause, velocità e punteggiature. È il tempo interno – che spesso corre al fianco di quello interiore, del battito del cuore e del respiro in chi scrive o recita e in chi legge o ascolta – e ha un suono proprio che trascende quello delle note musicale e degli accordi di uno strumento.

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L’atto di umiltà delle premesse di Leotta incontra la relatività del caso, ma è certo che avanza un problema reale nell’azione di interferenza reciproca che spesso mettono in atto forme espressive “esuberanti” come la poesia e la musica allorché sincrone come accade in una canzone. La ragione potrebbe essere rintracciata anche nella stessa biologia, legittimata dalla differente lateralizzazione cerebrale dei domini che, pur nascendo da uno stesso antenato (nel ripercorrere la filogenesi) nel corso dell’evoluzione si differenziarono. L’organizzazione funzionale asimmetrica si traduce in una maggior specializzazione dell’emisfero destro (con le sue aree, naturalmente, preposte) nel lasciarci trasportare da una melodia. Il linguaggio avrebbe invece una lateralizzazione prevalentemente sinistra e le sue aree sono anch’esse molteplici. Per un’analisi uditiva completa è necessario cogliere informazioni convergenti e mantenere alta la risoluzione delle diverse componenti per poterle integrare.Tuttavia, sarebbero coinvolte anche aree comuni, preposte all’elaborazione delle strutture sintattiche sia della musica che del linguaggio, come il giro frontale inferiore.

Anche le neuroscienze però fanno a pugni, perché le evidenze sperimentali sembrano sostenere esiti apparentemente contrastanti. Infatti, se da un lato pare che il cervello umano elabori la poesia attivando, oltre alla corteccia cingolata posteriore e ai lobi temporali mediali, anche aree diverse rispetto a quando leggiamo o ascoltiamo una prosa, aree – le prime – coinvolte nell’ascolto della musica e nei processi di memoria; dall’altro lato, è emerso che quando leggiamo o ascoltiamo una poesia si attivano aree “spente” quando ascoltiamo musica o guardiamo un film (inoltre se in questi ultimi casi ci emozioniamo improvvisamente, al tocco di una determinata corda della nostra sensibilità; quando abbiamo a che fare con la poesia si ha in noi – anche in chi non legge poesia come erano i soggetti del campione sperimentale – un crescendo emotivo sino a culminare nel brivido o nella pelle d’oca – a circa, pare, 4,5 secondi da quando ci emozioniamo).

Altre ipotesi, che dirottano sul cognitivo, potrebbero riguardare i processi attentivi.  È noto infatti come sia più difficile mantenere l’attenzione divisa che quella focalizzata, dal momento che bisogna mettere in campo un maggior numero di processi come la discriminazione tra stimoli e l’esclusione degli elementi distrattori rispetto al contenuto target. Quando ascoltiamo una canzone qual è il nostro focus di ascolto? E quali criteri utilizziamo – se abbiamo tempo e modo di usarne – per selezionare il quantitativo di informazione per ogni modalità sensoriale e per ogni dominio prima di giungere al percetto complessivo al momento di formare una gestalt, per non dire al momento di formulare un giudizio estetico su di essa?

Non si tratta di affermare il primato di alcuna forma espressiva – semmai l’autonomia di ciascuna – e, piuttosto, queste riflessioni ci fanno da supporto al momento di avanzare le nostre perplessità, forti anche della proposta speculativa di Antonio Leotta, quando pensiamo a quell’usanza – ormai divenuta tale – parecchio diffusa nei contesti sottoboschivi e parrocchiali di trebbi al momento di organizzare un recital a cui può darsi partecipino persino poeti promettenti o promettenti aspiranti tali, usanza – dicevamo – di abbinare, alla recitazione/lettura di un componimento poetico (e non), il suono di una chitarra o di un pianoforte (ma non si esclude la presenza di percussioni e fuochi d’artificio). Cosa ascolterà (o ascolterà prevalentemente) il casuale ascoltatore? E cosa avrà alla fine apprezzato realmente? Inoltre, avrà potuto cogliere la musica interna della poesia, quella musica che l’è costituzionale quasi a prerequisito? Leotta suggerisce di preferire, alle “sovrapposizioni”, le “trasposizioni”.

Giulia Sottile