Dopo le fiammeggianti poesie di Pyro, torna a scuoterci la poetessa sciclitana Erica Donzella con una seconda raccolta, Lucky Strike (Prova d’Autore), ineludibile seguito d’un esordio all’insegna del fuoco, cenere dopo le fiamme, come quella della sigaretta di cui lo stesso titolo è richiamo immediato. A mettere in guardia il lettore, ad apertura, due versi, dello stesso parere delle avvertenze sul bugiardino di un pacchetto di sigarette: “La poesia può creare dipendenza/ non iniziare”.

Chiama in causa l’Autrice un’immagine cara a sé ma alla stessa Letteratura, quella del fumo, e non a caso, ad introdurre, sono riportate le parole di Pessoa, caro a lei quanto il fumo stesso. E’ possibile attraverso la poesia ripercorrere la vita interiore? Lo è e nello specifico il progredire del tempo come dei versi è specchio di maturazioni di ben altra natura. E tanto più tale concetto è valido quanto più si tiene conto del fatto che la poetessa fumatrice è un’addetta ai lavori. Ne consegue che ogni parola è un sasso, ha vita propria, cammina da sola sebbene lunghi e dilatati, come spalmati sulla carta a prendere tutto, sono i suoi versi. Al loro interno leggiamo però significanti i cui accostamenti sono talmente inusuali da spingerci inevitabilmente ad interrogativi e riflessioni sui mille significati a colmare perturbanti contenitori. Tornando alla maturazione, questa è cammino, è moto, mai stasi, e mai stasi infatti si legge nella Donzella, dopo e al di là dei trastulli, dei logorii che bloccavano persino il corpo su di una superficie, dopo Pyro, raccolta d’esordio, tra le righe di Lucky Strike si legge ad un tratto “vendo l’eco della mia lussuria abbandonata:/ orgasmi mancati/ boccate da Urlo”. Si coglie allora come un punto e virgola e a capo, magari lasciando un rigo, in una vita. Si coglie un incenerimento avvenuto a rendere fertile un terreno su cui semi nuovi attecchiscano con maggior forza. E quasi a fine catartico giungono ricorrenti figure come la pioggia, il vento, il silenzio, la seta.

E’ questa la poetessa che ritorna nel suo costante tu per tu con la Poesia, sua interlocutrice prediletta, sua stessa Musa, sua confidente, ora narratrice, così che parli di sé o di lei poco cambia perché vita e poesia finiscono per coesistere. Che sia una sorta di meta-poesia? La poesia che parla a sé e di sé? Oppure è essa metafora, amica fidata a cui rivolgersi per avere in prestito parole? Potrebbe se ci si chiede se parlando di penna non si riferisca in realtà alla sua anima. E’ intima questa storia d’amore, eterna per chi nasce con l’inchiostro nelle vene, al posto del sangue. Ed è un amore che gioca le sue carte nella tensione a, nella mancanza, che l’amante sia poesia, vita, quel qualcuno a cui lei sembra rivolgersi, cosa? Lo dichiara senza paura: “Ma io sono innamorata dell’assenza”. E’ questa assenza che inaugura un rapporto di ambiguità con il suo Altro, aggrappato all’inafferrabilità, alla sfuggevolezza, alla voglia di costruire e poi sgualcire ma amare, incontrollabilmente. E’ l’Altro che non vuole perdere, è l’altro che non vuole avere? “Orfana d’amore”. E in tutto questo c’è un mettere su spine sul gambo della rosa, solo che solitamente lo si dice di una donna che appare petalo e a tradimento punge. Qui è tutto capovolto: dalla poesia emerge donna che ti avverte, “attraverso la mia gente con un ago appuntito/ di parola-madre-maria-vergine/ mai santa”, e che il petalo lo tiene per sé e per chi forse potrebbe non farle del male. Per precauzione, prevenzione, la poetessa pone un “sigillo salva anima” raccomandando di “aprire con cautela”.

Ma il coraggio è quello di volersi far comunque breccia nel cuore del suo altro. Qui le parole divengono seta. Ritorna infatti questa immagine che lascia sensazioni sfuggenti, dinamiche, presentimenti di trasformazione di una vita feconda di poesia. Seta è fumo, seta è la stessa Autrice, seta sono gli anni, tutto è seta e scivola, liscio, scorre con disinvoltura, ma resta la delicatezza della sensazione che sembra di sentire sulla pelle. E’ moto anche quello a voler raggiungere il dolore, senza paura, e rivolgendosi a lui gli si chiede “quante porte mancano al tuo cuore” e “con quali fiamme dovrei armare la mia penna”. Qui emerge l’arma della scrittura, che è lente, scalpello, pinza e all’occorrenza “le mie parole spade”.

Nato dagli abissi, quello che è chiamato più volte “verbo” svela e nasconde una fragilità, quella di una foglia che è però “sempre verde dentro,/ stelo eretto in ventiquattro inverni bianchi”. E’ qui il contrasto, come lo si rintraccia nell’ossimoro della “luce nera”, quello di una nota di vita, di calore, lì dove non ci si aspetta che sopravviva, ma d’altronde il fiore di loto attecchisce nel fango. E anche se il vento l’ha fatta cadere come foglia dal ramo, “dentro un abbraccio” è caduta. La solitudine e l’incontro.

Contrasti emergono tra malinconie e giochi quasi da bambina nel disegnare con le parole trasfigurazioni. A capo di tutto c’è la nudità della parola come della poetessa, o della prima che rende a sua volta nuda la seconda, dinnanzi a se stessa. E’ la sincerità ineludibile, l’onestà, al cospetto di ciò che va al di là di noi.

Dunque malinconie di un “seme secco” e parole “sfiorite”, quelle di un addio che vede fermi al sipario che si chiude dietro “chi fu eroe del mio atto infinito […] e anche il mondo,/ maschera di cera, si sciolse al pianto”, come quelle della solitudine (“è per non sfilacciarti/ che mi cucio da sola”) di un’Erica-Orfeo che si accorge che “l’incubo della perdita della tua mano/ è il mio risveglio”. Si passa poi alla spirale vorticosa della “scialuppa di sesso sporca” dipinta come una condanna all’Inferno e un giro “con un Caronte fantasma”. Fuga. E poi la ragione a consolidarla. Un esempio ne è la comprensione della natura di sé e di ciò che si ammette di essere, senza vergogna ma non senza pudore. Allora “se ergersi con purezza alla vita/ mi chiede respiro infinito,/ avrò memoria di un peccato originale,/ bellissimo,/ soffocato”.

Dunque giochi (benché non spirito ludico deve averne suscitato suggestioni), come quello di una corsa “arrotondata nella notte” che suggerisce l’idea di un rotolamento, o quello dei “nostri bambini disegnati sui tuoi capelli,/ giocano dentro le mie mani,/dieci dita volano con i tuoi palloncini rossi” nella ciclicità di chi si rinnova per ripetersi – come “l’affitto del cuore ogni fine del mese” o “le tue passeggiate dentro la mia vita”. E irrompono i colori come irrompe il verso: “Se non fosse il caso di disegnare arcobaleni sulla schiena della pioggia/ mi chiedo […] di sbrinare l’anima con un soffio […] e poi picchiare parole per aria”, tra leggerezza e divino nell’atto di creare e manipolare gli elementi, prendersi il capriccio e la responsabilità di timbrare con la propria essenza. E’ il coraggio di chi osa “entrare in una stella,/ e uscirne luce”. E’ la fecondazione da parte del “tuo verbo” da cui nascerà “un figlio forte di poesia”, che sempre voce dia anche “se canti cenere” (“morta non sei per il canto dei miei sospiri”), ma che non si riduca l’anima ad essere “polvere che scivola dalla parola,/ toccata dal tempo,/ erosa di solitudine”. Leggerezza e trasparenza come il fumo di una Lucky Strike, nudità, verità. Ecco perché per Erica Donzella “è tempo di spogliare il canto”.

Lungo la scivola dritta che scorre sulla seta, si accompagna la circolarità anche strutturale della silloge poetica, nell’interpellare nuovamente la tematica del tabagismo ma capovolgendone il senso. Il fumo-poesia contraddice l’incipit mostrando l’ambiguità del poeta: “la poesia uccide…/ chi non la respira”.

Giulia Sottile