«In fatto d’arte, l’Italia è ancora provinciale», affermava Emilio Greco per spiegare la propria inclinazione creativa verso le avanguardie. E la sua affermazione ha trovato autorevole conferma in una testimonianza, poco nota, di difesa che Leonardo Sciascia ha dedicato a una delle opere più contestate dell’artista: il monumento a Pinocchio. Conferma importante perché proveniente da un intellettuale di tutt’altro orientamento artistico. Sciascia infatti non è stato ammiratore né frequentatore di avanguardie. Ma andiamo ai fatti.

Erano i primi anni ’50 e, in occasione del settantesimo anniversario della prima edizione del racconto di Carlo Lorenzini (in arte Collodi), il comitato nominato dall’allora sindaco di Pescia, patria dell’autore di Pinocchio, aveva commissionato a Emilio Greco la realizzazione di una scultura in omaggio al burattino più famoso del mondo.

Alla pubblicazione del bozzetto di “Pinocchio e la Fatina”, comunità locale e nazionale hanno puntualmente reagito sollevando verso il complesso scultoreo un coro di polemiche, amplificate e orientate dalle cronache. Una coralità che sfiorava il grottesco, colorata di atteggiamenti patriottici, che non ha fatto mancare iniziative volte a ridicolizzare l’artista e la sua scultura, come quelle nelle scuole indirizzate ai bambini i quali avrebbero dovuto firmare petizioni o svolgere temi in classe – come è accaduto a Milano – dal titolo “Vi piace il monumento a Pinocchio? Perché?”.

Ma le più malevole critiche contro l’opera di Greco non erano quelle dettate dalle emotività, forse esibizionistiche, di qualche insegnante, quanto dagli “addetti ai lavori”, critici e persino colleghi dello scultore catanese, reo del doppio peccato di essere siciliano e di affermarsi con la novità della propria arte scultorea. E infatti, un Leonardo Sciascia trentenne, indignato dall’azione di mobbing, in una pungente pagina di osservazioni pubblicata sull’allora diffusissimo Raccoglitore (inserto letterario periodico del quotidiano La Gazzetta di Parma), prendeva le difese di Emilio Greco contro i suoi delatori e, soffermandosi sulle oscillazione del gusto degli italiani di quegli anni, scriveva:

«Dall’Unità ad oggi, comitati cittadini, leghe patriottiche e massoniche, associazioni combattentistiche e partiti politici, sono stati attivissimi, e spesso a danno delle più belle piazze d’Italia, nel mobilitare tutta la cattiva scultura per esternare fatti e figure della storia nazionale e locale (…) e poiché da questi monumenti [i cittadini] traggono la loro unica nozione di scultura, è logico che rifiutino quella che può loro provenire da un Manzù, un Marini, un Greco».

Non alla gente comune che fruisce di un’opera d’arte lo scrittore siciliano rivolgeva il proprio disappunto, ma a coloro i quali, dalla privilegiata prospettiva di chi viene, più o meno legittimamente, insignito di autorevolezza al momento di pronunciarsi con un giudizio critico, «attraverso la carta stampata quotidiana ed ebdomadaria dovrebbero educare il pubblico a sapere vedere». «Questa alleanza» aggiunge, «sancisce non soltanto il principio che il contribuente ha diritto a un decisivo giudizio estetico sulle opere pubbliche e sui monumenti in via di realizzazione; ma che di volta in volta prevalga il giudizio delle categorie interessate. Per un monumento a Mazzini, per esempio, dovranno pronunciarsi i repubblicani storici; i carabinieri per un monumento ad un eroe dell’arma; i fisici per un monumento a Marconi; e per il monumento al cane di san Bernardo, l’ultima parola spetta appunto ai cani di san Bernardo».

Non è nuovo il principio secondo cui si fa sempre fatica a elaborare una nuova nozione così come un elemento di novità all’interno di un panorama (visivo quanto sociale) ed è alle proprie capacità di ristrutturare il proprio sistema rappresentazionale che bisogna attingere, quegli stessi che stabiliscono i canoni estetici e orientano in rapporto a essi; ma erano gli italiani anni ’50, reduci dal Rondismo che postulava la bipartizione tra l’elitaria arte per l’arte e il suo contraltare, l’arte per le masse a cui fornire evasione e il cui consenso orientare. Implicazione: il contrasto tra un gusto fedele al classicismo e alla tradizione, da un lato, e, dall’altro, l’assenza di un’educazione che possa far parlare di gusto. Che possa essere questa (ancora attuale) tendenza culturale a impedire al comune fruitore di individuare onestamente o liberamente l’elemento-arte in un prodotto creativo?

Sciascia non ci parlava di questo, ma ci raccontava, forse a conforto dell’artista osteggiato, del destino che aveva accomunato il Pinocchio di Greco a quello di Walt Disney:

«Le veline del Minculpop ordinarono indignazione ai gazzettieri; ma i ragazzi, vedendo il film, si divertirono».

E poi giunge altro conforto, quello della critica d’arte successiva a quegli anni che, al già esternato apprezzamento da parte di Sciascia, aggiungeva e continua ad aggiungere propri contributi, come quello che compare sulla Treccani sotto la firma di Carlo Pirovano: «Proprio lo stacco netto, felicemente emblematico, dalle consuetudini aneddotiche degli illustratori scolastici doveva essere la causa di più pertinace resistenza all’invenzione proposta dal Greco (…) Mai quanto in questa felice invenzione per il luogo deputato della fantasia infantile il G. ha declinato expressis verbis la sua accorta rilettura delle grammatiche dell’avanguardia, in una dialettica nient’affatto riduttiva o meccanica, che punta esplicitamente alla decantazione formale contro i condizionamenti del naturalismo illustrativo e i laccioli della verisimiglianza; dove invero la formidabile consapevolezza dei ritmi spaziali e della consistenza scultoria, costituzionali all’invenzione narrativa, può permettersi il liberissimo gioco di trafori luminosi, di spiragli e riflessi, che direttamente generano l’immagine, prima ancora d’esserne motivati per necessità espressiva».

Che a essere osteggiato sia spesso chi ara su terreni nuovi?

Una pagina, poco nota, dello spirito ironico e caustico sciasciano, pronto a stigmatizzare storture e pregiudizi. Senza escludere che lo scrittore siciliano abbia in quella occasione sentito il bisogno di reagire valutando quanta invidia stava suscitando fuori dall’Isola il consolidarsi della figura del siciliano di Catania Emilio Greco, scelto per realizzare il monumento al personaggio universale di Pinocchio da impiantare in una città del “Continente”, come allora veniva ancora  denominato il territorio d’oltre Stretto, anche nelle diciture istituzionali impresse sulle cassette della raccolta postale, che distingueva la corrispondenza destinata alla Sicilia da quella, appunto, per il Continente.

Giulia Sottile