«“Io vorrei fare l’altra esperienza” disse la suonatrice di lira;
“celarmi dietro un tropo, una metafora, una figura di pensiero e delle scritture
da cui il cervello umano si lascia facilmente sedurre.
Vorrei diventare simile a un’idea”.»
(Maria Corti, Il canto delle sirene)
Si tuffavano in mare giocandosi la stessa vita i marinai sedotti dal canto delle sirene, e l’unico antidoto per Ulisse fu il farsi legare all’albero maestro mentre i suoi uomini si tappavano le orecchie con la cera. Metafora patrimonio dell’umanità, non occorre approfondirne il senso; è pretesto, semmai, per ricordare di quanto seducente come una sirena possa essere la conoscenza, nel conflitto tra “tensione verso” e autodistruzione, tra “esplosione” e “implosione” in queste creature perennemente in precario equilibrio chiamati esseri umani.
Poco importa se talvolta è la curiosità della vicina di casa e talaltra il desiderio di dimostrare la formula risolutiva a un problema, noi siamo la percezione del vuoto da colmare, immersi nel progressivo riempimento del già pieno che si accatasta come appartamenti nei condomini. «Le sirene sono dentro di noi», scriveva Maria Corti.
Ma oltre a farsi, da movente, percorso, la sirena della conoscenza è quel reticolato di capillari che si formano su un terreno di ghiaia dopo la pioggia, connettendosi in una trama sempre più fitta; è un labirinto di stanze che danno su altre stanze lungo cui srotolare il filo di Arianna, assecondando un po’ la conformazione di ogni tessuto del nostro organismo a partire dal sistema nervoso, l’assetto organizzativo della nostra mente a partire dalla memoria – stando alle teorie associazioniste. Ma, azzardandosi, si potrebbe dire che lo stesso concetto di serendipità (in parte vicino ai processi sottesi dal recupero per insight) è di concatenazioni di saperi che si nutre. Concatenazioni che, lì dove non servite sul piatto d’argento, vengono intuitivamente e spontaneamente messe in piedi grazie alle conoscenze in proprio possesso. “La serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino” – scriveva il biomedico Julius Comroe – ma non avrebbe esclamato nessun eureka: in accordo con alcuni studi, sembrerebbe che il caso non esista, che esista piuttosto la sincronicità.
Torniamo ai capillari che si congiungono per percorrere a braccetto la stessa vena.
È forse per questo che l’accrescere dei contenuti immagazzinati nella nostra memoria conduce a una complessificazione dell’organizzazione interna dell’edificio, un consolidamento delle connessioni tale da renderle con sempre maggior facilità accessibili. Per questo riusciamo a far meglio chiarezza nell’approcciarci al mondo che ci circonda. Un po’ come Sherlock Holmes, apparentemente mossi dall’intuito, o meglio: mossi da ciò che apparentemente giunge inaspettato.
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Allo stesso modo ha operato in me questo meccanismo, a posteriori rispetto a un mio intervento svolto qualche tempo fa su queste stesse pagine (http://www.provadautore.it/?q=node/924)in riflessione e in risposta a un tema sollevato da Antonio Leotta circa la concorrenza, più o meno esuberante, tra testo e musica in alcune canzoni. In quella sede si è parlato di “sovrapposizione” e si è proposta una modalità alternativa di fruizione del prodotto artistico evitando che i diversi registri entrino in competizione (Leotta l’ha chiamata “trasposizione”, http://www.provadautore.it/?q=node/920).
Qualche tempo è trascorso e il destro per questa mia postilla, quale ulteriore riflessione,svestiti i panni letterari e indossato il cartellino, me lo fornisce il ritorno fortuito su un modello teorico-descrittivo di struttura e funzionamento di quella che chiamiamo “memoria di lavoro”.
Avevo già premesso allora la discordanza – quantomeno nelle conclusioni – degli studi neuroscientifici,in supporto alla mia tesi secondo cui dovremmo forse considerare ogni caso nella sua specificità, ma che tendenzialmente risulterebbe complesso accedere a una bella canzone (se restiamo all’oggetto esemplificativo del dibattito, ma per dire espressione artistica composita, di più registri espressivi), senza rischiare di fruire solo parzialmente di ciascuna delle parti che la compongono. Avevo cercato le possibili spiegazioni nella naturale lateralizzazione degli emisferi cerebrali e nelle funzioni attentive, lasciandomi passare inosservato sotto il naso quella complessa funzione che sottende ogni operazione mentale che svolgiamo nei più disparati compiti della vita quotidiana: fare il conto della spesa, apparecchiare la tavola, portare avanti l’orologio, trascrivere appunti.
Sto parlando della memoria di lavoro, altrimenti detta workingmemory, costrutto teorizzato da Baddeley nei primi anni ’70 e poi ulteriormente affinato. È quella declinazione della memoria a breve termine a cui ricorriamo quando abbiamo bisogno di tenere a mente, anche per pochi secondi, qualsiasi tipo di contenuto che ci serve per compiere una operazione. Sarebbe costituito da un sistema attenzionale supervisore chiamato “esecutivo centrale” e da due sottocomponenti funzionali (ma anche magazzini): 1) una deputata alla ritenzione delle informazioni verbali – fonetica e fonologica – (il circuito articolatorio o loop fonologico, ulteriormente scomponibile in memoria verbale uditiva a breve termine – l’orecchio interno – e sistema di ripetizione articolatoria – la voce interna – che, oltre a evitare il decadimento della traccia, permette, per esempio, di trasformare le informazioni verbali scritte in codice fonologico attraverso l’articolazione subvocalica); 2) l’altra è deputata alla ritenzione delle informazioni visuo-spaziali (il taccuino visuo-spaziale, che non ci serve approfondire). Quanto all’esecutivo centrale, oltre a intervenire quando le informazioni contenute nei magazzini suddetti devono essere manipolate, coordinandoli, attingerebbe al serbatoio a lungo termine, selezionerebbe le strategie, coordinerebbe la contemporanea esecuzione di compiti diversi e le funzioni cognitive dell’attenzione selettiva e dell’inibizione.
Dati interessanti sono emersi dagli studi sperimentali che si sono serviti del paradigma del “doppio compito” (in cui i partecipanti dovevano svolgere contemporaneamente più d’un compito): una attività composta che richiedeva l’impiego di distinti domini percettivi veniva eseguita quasi come se entrambi i compiti fossero svolti singolarmente, mentre accadeva invece che quella che mobilitava per entrambi i compiti lo stesso canale percettivo veniva eseguita significativamente peggio rispetto all’esecuzione singola di ciascuno di essi, e dunque peggio rispetto alla precedente condizione. Questo accadeva perché – fu la spiegazione – ogni canale percettivo opera separatamente e autonomamente rispetto agli altri, tanto da non comprometterne l’efficienza al momento di richieste multitasking. Il gioco regge finché al singolo canale non viene chiesto un sovrappiù nel sobbarcarsi al doppio o al triplo del lavoro. I compiti richiesti interferiscono tra loro e dunque “competono” per le stesse risorse.
Alla luce di questa teoria, esposta in sintesi per non tediare il lettore, verrebbe da chiedersi: l’ascolto di una canzone, e l’intento di assaporare tanto il testo quanto la musica, è un doppio compito che richiede la mobilitazione di strutture cognitive diverse o della stessa? E, in entrambi i casi, l’esecutivo centrale che, tra gli altri, svolge anche la funzione – come si è detto – di inibitore (di ciò che farebbe da interferenza per il nostro focus, di ciò che appare meno rilevante o che risulta “sacrificabile” per rientrare nel “budget” energetico della struttura), cosa inibisce? Ma, ipotizzando che l’ascolto di una canzone sia la nostra condizione sperimentale di doppio compito, quali indicatori tangibili o comunque “misurabili” (come vorrebbe il metodo scientifico) potremmo considerare per la verifica della teoria (che sia pro o contro la validità del concetto di “sovrapposizioni”)?
Al di là di ogni speculazione filosofica, prendendo atto e anzi sollecitando la riflessione in qualsiasi tipo di lettore, confesso che mi piacerebbe sentire cosa a tal proposito sosterrebbero gli addetti ai lavori, magari stimolati da questa riflessione al momento di impostare un progetto di ricerca.
Giulia Sottile