ovvero

il pensiero crea il destriero?

A chi devo parlare se il mondo non esiste? Se quello che chiamo padre, fratello, madre non sono altro che la materia generata dal mio pensiero? Vado sempre più fortificando questa teoria sulla base di accadimenti impropriamente reali. Ovvero che niente esiste all’infuori della nostra mente, e quindi della mia, perché voi esistete solo in ragione della mia esistenza. Vorrei dunque spiegarvi meglio, spiegare a voi per spiegare a me stesso. Esempio numero uno. Qualche mese fa mi trovavo a Roma e avevo chiesto a un mio contatto Facebook di incontrarci. La signorina aveva declinato l’invito senza addurre spiegazioni, semmai avrei dovuto dedurre io. Un fidanzato? Assenza di interesse? Civetteria? Non so. Fatto sta che intorno alle 23:30 di un venerdì, mentre uscivo da un ristorantino del Pigneto e con amici imboccavamo una stradina solitaria, vidi due ragazze. Quando fummo prossimi a incrociarci riconobbi il volto della ragazza che aveva rifiutato l’appuntamento e la fermai chiamandola per nome. L’imbarazzo ridusse al minimo i convenevoli. Quante probabilità c’erano che la incontrassi in una città di quasi tre milioni di abitanti? Pochissime, infinitesimali ragionando con logica deterministica. Molto più apprezzabile l’idea che quell’immagine, in quel momento, l’avesse generata la mia testa, orgogliosa d’averla vinta su qualcosa che essa stessa aveva creato in precedenza. Un paradosso. No. Se la mia mente avesse voluto portare a cena quella donna con l’intenzione di sposarla una settimana dopo l’avrebbe certamente fatto e quella donna avrebbe accettato. Esempio numero due. Da ragazzo a volte seguivo un talk show per la presenza di un giovane comico che nel suo avrebbe fatto una carriera straordinaria. Mi faceva divertire parecchio e mi sembrava di conoscerlo da sempre. Di sapere persino l’odore che facesse. Non molto tempo fa mi è capitato di lavorarci insieme, così, in maniera del tutto casuale. Per i mondi che frequentiamo, per le diffuse altezzosità dell’artista in generale (non lui, fortunatamente), per il mio modo di maneggiare i salotti, non ci sarebbe mai potuta essere occasione di sodalizio. E invece capitò proprio il contrario. Di trovarci a lavorare e di guardare dallo stesso occhio come se fossimo cresciuti insieme sin dall’epoca della prima memoria. Esempio numero tre. Da molto tempo desideravo un lungo periodo di quiete per poter rimanere a casa e scrivere un nuovo romanzo. Questo non mi era diventato più possibile. Impegni di lavoro vari, appuntamenti, distrazioni, telefonate, create appunto da me stesso per allontanarmi dalla scrittura, erano diventate incalzanti. Ora sappiate, o meglio, è bene che lo rammenti a me stesso, che per scrivere un’ora al giorno io ho bisogno delle ventitré successive. Che sono ore di solidificazione della materia letteraria, ore di vite che necessitano di approfondimento perché nella realtà che la mia mente ha costruito non gioco per il romanzetto stagionale o per il successo; io gioco per l’illusione dell’eternità, anch’essa un concetto del tutto inesistente ma utile al mio programma. Intrappolato com’ero in una consuetudine impossibile da ribaltare, serviva dunque una giustificazione planetaria, qualcosa che coinvolgesse tutti gli uomini concepiti dalla mia mente fino a quel momento. Così ho creato il coronavirus. Potrei decidere di morirne anch’io qualora mi venisse di abbandonare questa dimensione, ma non sarà affatto così. Prima ho da consegnare alla letteratura, che io stesso ho inventato, l’illusione di potermi affidare a un tempo infinito.

Vladimir Di Prima