OMAGGIO A VERGA NEL CENTENARIO DELLA SUA MORTE
LA CHIAVE D’ORO

Martedì scorso abbiamo riportato due pagine di “Catania quando c’era Verga” dal libro di Sabatino Lopez (S’io rinascessi, ed. Mondadori), 1949) per ricordare Giovanni Verga nel centenario della sua morte e abbiamo promesso ai Lettori di Ebdomadario che avremmo pubblicato altro nostro contributo al coro dei ricordi verghiani in atto. Pensavamo di farlo leggere on-line nel Lunarionuovo del 24 gennaio. Motivi organizzativi ci hanno costretto a rinviare la pubblicazione in rete della suddetta Rassegna, motivo per cui scriviamo ancora una volta in Ebdomadario quanto promesso di nostro in omaggio a Verga. Nulla di straordinario invero, è una segnalazione che ci sembra opportuno privilegiare a favore di una novella insolita. Singolare nel suo genere, totalmente diverso rispetto alla linea letteraria dell’Autore delle Novelle: “La chiave d’oro”.  Che Verga scrisse nel 1883, che fa parte del volume di tutte le novelle, pur nel suo contenuto che arieggia la produzione di narrativa sciasciana di quasi tre quarti di secolo dopo, sulla mafia.

Ne La chiave d’oro l’autore de I Malavoglia, del Mastro don Gesualdo, Cavalleria rusticana e di quella messe di Novelle “veriste” narra un episodio i cui protagonisti sono un prete, un campiere (Surfareddu) e un magistrato. Era appena passata l’or di notte quando le parrocchiane immerse con il prete e nell’abitazione di questi, nel rito religioso della recita del rosario, sobbalzano impaurite da due spari, uno seguito di poco all’altro. La tensione aumenta quando, poco dopo bussano alla porta e il sacerdote stacca il fucile appeso alla parete e si dispone all’ascolto, imponendo che nessuno fiati o si azzardi ad aprire. Ma tutto prende spiegazione quando si sente la voce concitata di Surfareddu che, fuori, dietro la porta, comincia col dire a voce alta al sacerdote quanto era valsa la sua fedeltà, proprio fino all’ultimo giorno della sua responsabilità di campiere. In due parole Surfareddu spiega la ragione e le conseguenze dei due spari di poco prima: aveva sorpreso i ladri delle ulive con i sacchi pieni che avevano alleggerito le piante del podere del prete.  Questi non commenta ma impone a Surfareddu di sparire fino a che non sarebbe stato avvisato di tornare alla normalità. Poi seguito dalle donne del rosario, armato di fucile, si reca sul posto dove trova agonizzante chi, stentando sull’ultimo respiro, disteso, agonizzante sussurra come per alcune ulive gli era stata tolta la vita.

L’indomani giunse il magistrato con il suo seguito per il sopralluogo e dopo avere ascoltato la versione dei fatti esposta dal prete, mugugna di aver capito e che tutto avrebbe meritato di mandare in carcere chi aveva sparato e chi cercava di coprirne la colpa dell’omicidio. Poi tutti tornati alle loro incombenze quotidiane. Solo che l’indomani un messo del magistrato che aveva effettuato il sopralluogo, si presenta al prete per informarlo che il signor giudice procedendo agli accertamenti aveva smarrito una chiave d’oro, che la cercassero perché non sarebbe stato difficile trovarla nel luogo limitato dove era stata svolta l’operazione del giorno prima.

Il prete capì a volo e si premurò a incaricare un suo fiduciario perché si recasse a Caltagirone presso il gioielliere al quale ordinare la confezione di una chiave d’oro. Avutala la fece portare al giudice al quale venne posta la domanda se era la chiave giusta, quella che aveva smarrito. Pronta la conferma: sì, era proprio la chiave che aveva smarrito. Poi, il prete non si trattenne di rivolgersi un compiacimento: è stato onesto, avrebbe potuto smarrire con la chiave la catena e l’orologio d’oro.      

Una chicca per gli esegeti della narrativa che, inaugurata da Sciascia con Il giorno della civetta e da Glauco Licata con I Musumeci di Bagheria, un secolo e mezzo dopo La chiave d’oro di Giovanni Verga, avrebbe continuato a caratterizzare tutta una lunga stagione di “gialli polizieschi”, con teatro la Sicilia. Forse con qualche venatura di influssi durrenmattiani. Ma questo è altro discorso per altre occasioni.

(Mario Grasso)