Il prossimo 27 di questo gennaio ricorre il Centenario della morte di Giovanni Verga, ci uniamo al coro di quanti lo ricorderanno riportando la parte che lo riguarda di un revival intitolato “Catania quando c’era Verga” nel libro Se io rinascessi di Sabatino Lopez:

“Dei catanesi, quando giunsi nel capoluogo etneo, non conoscevo di persona che uno solo: il maggiore, Giovanni Verga. L’avevo veduto e avvicinato a Milano, tre anni prima, una domenica, all’assemblea annuale della Società degli autori (…).  A Catania, dunque, conoscevo già Verga, ma prima di lui incontrai, separatamente, Rapisardi e De Roberto. Con Rapisardi era molto difficile imbattersi, se non alla libreria Giannotta. Lui e Carducci, chi voleva salutarli, doveva cercarli dai loro rispettivi editori: Carducci a Bologna in libreria Zanichelli, Rapisardi a Catania da Giannotta. Erano come i principi del luogo: Carducci più diffidente e scontroso, Rapisardi casalingo, ma accogliente e popolare.

Verga no, a Catania non era popolare. Gli facevano carico di un vecchio peccato d’amore. Eppure era così discreto che io non gli sentii mai uscire di bocca il nome di una donna per quanto alcuni suoi romanzi … vissuti fossero noti quanto i suoi romanzi scritti e forse più. Ci sono di quelli che esagerano, e moltiplicano, a sentirli son freschi e ardenti a cinquant’anni come a venti. Lui l’opposto, per una civetteria che ho conosciuto in altri sui colleghi amatori. Diceva: “Io non pratico più”. E quando lo fissavamo, increduli, negli occhi, sorrideva un poco ma ripeteva: “Io non pratico più”.

E poi Verga a Catania conduceva vita semplice e ritirata. Se devo dire la mia impressione… mi pare che ci faceva la villeggiatura. In questo senso: che in quegli anni, un po’ più presto un po’più tardi in autunno, l’accompagnavamo alla stazione, perché andava a Milano a vivere, a trovare gli amici artisti, il suo editore Emilio Treves che aveva carissimo, e là frequentava i salotti e la gente elegante. A Catania invece non era punto mondano… anche perché allora era difficile esser mondani a Catania. Canuto, dritto, elegante come sa esserlo un buon siciliano elegante, passeggiava inosservato e insalutato, con noi o con il suo fido e vecchio amico, l’avvocato Salvatore Paola che gli era carissimo. Con noi, cioè con una piccola brigata: Federico De Roberto, che gli era devoto come un figlio, il conte Viani torinese, finissimo miniaturista, morto anni or sono a Catania, dove aveva finito per trovarsi bene; Clerle, un veneziano, ispettore delle Assicurazioni Generali, ed io.

(…) Verga leggeva e componeva. Di sé, dell’opera sua non parlava quasi mai, e quelle rare volte perché ce lo portavamo noi col discorso. Parlava piuttosto dei libri che aveva in lettura: rileggeva allora tutto Flaubert, e mi ricordo le sue risate piene, fragorose nel rievocare le figure, le frasi di Bouvard et Pecuchet e l’ammirazione commossa per L’educazione sentimentale. Per lui Flaubert era” il colosso”. Tra gli scrittori italiani stava rileggendo il Manzoni e il Fucini. Fucini lo divertiva molto, specie nelle Veglie e più particolarmente nella Scampagnata che giudicava un capolavoro d’arte paesana.

Un giorno partì per Palermo. Voleva rivedere luoghi e persone, rileggere documenti e giornali per il suo romanzo La duchessa di Leyra, che sarebbe stato il terzo della serie dei Vinti. Tornò, e una mattina Federico, commosso, mi dette l’annunzio: “Sai, Verga ha comprato della gran carta a mano. Oggi o domani comincia il romanzo”. E difatti quando tornai a casa sua vidi sull’alto leggio (Verga non scriveva che in piedi) le prime pagine della Duchessa in quella sua scrittura sottile, in inchiostro violetto. Ma il romanzo non fu finito, perché più di un lutto si abbatté sulla sua casa.

Scrisse in quegli anni La lupa, e fu la sola volta che mi parlò di cose sue. Gli vidi fare e rifare il finale, la parte meno riuscita del potentissimo dramma. Raccolse in quel tempo in un volume tutti i suoi lavori scenici e me ne regalò una copia, con una dedica semplice e affettuosa (inchiostro violetto e scrittura sottile), ma a voce aggiunse: “Sentite, caro Lopez, Voi scrivete nei giornali, e penso che vorrete parlare anche del mio Teatro. Vi prego, in pubblico non ne dite parola: ci sanno troppo amici perché possiate riuscire a sembrare sereno.”

Una volta, per Natale, Verga ci invitò a passare la serata con lui e mangiare il panettone inviato da Arrigo Boito. Fu una grande serata. Ci eravamo accordati, noi della “piccola brigata” di presentarci tutti quanti a Giovanni Verga, ignaro, in frac e decorazioni… Veramente decorazioni non ne avevamo, di nostre, ma Viani ne aveva autentiche non sue, del padre. Altre ne fabbricò e tutti intabarrati, non perché facesse freddo, m per pudore, ci avviammo verso la casa di Verga in Via Santa Anna (…)” 

Un ritratto di Giovanni Verga, questo che proponiamo, lo ha scritto a fine del 1800 Sabatino Lopez, e poi pubblicato nel libro S’io rinascessi,  edito da Mondadori nel 1949, inserito tra i suoi ricordi,  nel capitolo intitolato “Catania quando c’era Verga” – Lo abbiamo anticipato in Ebdomadario riservandoci, in questa occasione delle celebrazioni del Centenario della morte dello scrittore, di aggiungere  un personale commento a una delle Novelle più significative e per molti  aspetti “unica” nel suo genere precursore della letteratura sulla mafia, iniziata 75 anni dopo con I Musumeci di Bagheria di Glauco Licata e portata al culmine della popolarità da Leonardo Sciascia. Lunarionuovo sarà in rete il 24 gennaio. Il nostro intervento sarà inserito nella rubrica “Dalla finestra di M.G.”

(Mario Grasso)