Di Mario Grasso, multiforme temperamento, poeta, giornalista, intellettuale e animatore culturale, tanto ancora c’è da scoprire, in quell’intricata e prolifica sinfonia di significati e provocazioni che è la sua opera.
Vorrei in particolare qui richiamare l’attenzione su Mario Grasso scrittore in prosa, un po’ perché forse si tratta di aspetto meno studiato, un po’ perché funse da aspirazione e ispirazione per i velleitari tentativi letterari dello scrivente, il che, quanto meno, ne determina il sicuro interesse.
La prosa di Mario Grasso è asciutta, precisa, millimetrica, ma da quel tracciato definito si vedono scaturire sorprendenti moltiplicazioni di senso, richiami e rimandi linguistici, imprevedibili e direi non del tutto intelligibili a tutti, almeno a un primo livello di coscienza. Anche l’uso del dialetto, dei proverbi, dei termini, raramente serve alla regressione al livello del personaggio, come pur fece in modo pregevole Verga, né da condimento esotico, propinato abbondantemente a lettori in cerca di esperienze vacanziere. Il dialetto viene usato come lama per squarciare il fondale, come macchina surreale: oggetto riconoscibile ma fuori posto che ci costringe ad allargare il campo delle possibilità.
In questo senso, la prosa di Mario Grasso si fa carico di tutte le istanze della poesia, pur nascondendosi nel tono confidenziale, colloquiale, del raccontare.
Ma vorrei fare un esempio, uno tra i tanti, tratto dal racconto breve A cuda ’u drau che trovate dentro la raccolta Le vestali di Samarcanda:
“A cuda ’u drau. No ’a vidi vossia? […]
Ecco, dapprima cala e si piega, ma, mano a mano che s’accosta all’acqua, la proboscide scivola dalla testa verso la base della trupiana scura; poi, allorché s’affuncia maligna nell’acqua, diventa di colpo appendice della madrenuvola, e le svaniscono di torno le filacce. S’aggiusta della deformità di prima, s’addrizza, s’assesta, s’acceppa, s’irrigidisce in perpendicolare alla trupiana immensa, di cui adesso non è più proboscide, non è più collo, ma coda. […]
E la coda del drago-trupiana, adesso, affunciata nel mare, slucquaccica, succhia a tempo pieno, ciuccia chiassosa. E il gorgoglio dell’acqua che s’intromba fa immaginare un’apocalittica caverna a sifone, con altre caverne, che inghiottono rumorose e eruttano. […]
L’urlo alle mie spalle era di liberazione. La coda della trupiana, dell’immenso otre-rospo, s’era spaccata. Adesso slucquaccicava il fiotto bianco in cascata come scrosciate di refrigerante pioggia. E sono fili di pannocchia i radi capelli sbolati di Masi, come i resti insignificanti della tromba marina”
E bisogna averne cutulato frumentodindia, e riempito i materassi di scaffogghia, e fumato firucapillu per capire come sbolavano i capelli di Masi e i resti della tromba marina… Ma qui i riferimenti dialettali sono due pennellate, minuscoli squarci nel tessuto in lingua, due pretesti per rimandare al contesto, in mezzo a una sinfonia di immagini, visive e sonore, descritte e suonate. La trupiana non indietreggerebbe di fronte all’Orcaferone.
La consuetudine con il vernacolo in Mario Grasso, che precede la pubblicazione darrighiana, è usata come forza liquida, immatura, marcescente, per liberare significati che resterebbero solidificati, compiuti, disinfettati, nella lingua. Parole dialettali quindi come materia moribonda e concimante, depositaria di significati eccentrici rispetto al main-stream odierno, ma carichi della vita che vi si è attaccata quando venivano magicamente pronunciate, e patrimonio di esperienze magari oggi inutili, ma non si sa mai! Una miniera di spiegazioni di riserva, semi oggi superflui, ma che potrebbero salvarci dal prossimo cataclisma.
Anche sul surrealismo della scrittura va identificata una peculiarità di Mario Grasso, pur nel solco di quello che fu sicuramente uno dei suoi maestri, Dino Buzzati: in Mario Grasso l’intento non è mai disinteressato, mai ridotto alla prospettiva dell’inconscio personale, del mondo dei sogni o degli incubi. Si ritrova invece sempre un’intenzione attiva, capace di scardinare l’ordine di facciata della società e mostrarne le fatiscenze, la superficialità della bianca vernice dei sepolcri.
Piuttosto si potrebbe, in certa misura, attribuire a Mario Grasso il programma letterario che Cortázar aveva messo nella penna del personaggio Morelli in “La Rayuela”:
“… Provate invece un testo che non afferri il lettore ma lo renda complice borbottando, al di sotto dello sviluppo convenzionale, altre direzioni più esoteriche. Scrittura demotica per il lettore (che altrimenti non andrebbe oltre le prime pagine, rudemente smarrita e scandalizzata, maledicendo quanto gli è costato il libro), con un vago rovescio di scrittura ieratica. Provocare, assumere un testo spettinato, slegato, incongruo, completamente antiromanzistico (sebbene non antiromanzesco). […] cercate anche qui l’apertura e quella per sradicare ogni costruzione sistematica di personaggi e situazioni. Metodo: ironia, incessante autocritica, incongruenza, fantasia al servizio di chiunque.”
Mario Grasso non smetteva mai, anche nei momenti più lirici, surreali, magici, di dialogare con la realtà, di additare l’impostura, di procedere con approccio da intellettuale: “io so!”. In questo sì affine, e non emulo, di Sciascia, che fu eppure un suo punto di riferimento e amico. Basta scorrere la fantastica collezione di quadri trasognati ma con precisa metafora contestuale, magari incomprensibile al lettore nella sua determinazione specifica, ma riconoscibile nel riproporsi ovunque degli infingimenti umani: Gli zeranti, Il mistero della cavalletta, L’Occhio di Brigol, per restare alla raccolta “Le vestali di Samarcanda”. Ma anche I sette arcieri di Bajamazol, o, ancora più lampante, Occasioni.
Accostarsi alla lettura della prosa di Mario Grasso non è riposante. Anche se spesso gli incipit sono concilianti, non c’è da fidarsi. Il decorso è spesso sorprendente, disturbante in un certo senso, perché porta altrove, perché pretende la nostra complicità, l’abbandono del senso comune alla ricerca del senso profondo, nascosto magari dietro cento possibilità di cui non ci fornisce la chiave. Se non si regge questo spaesamento, ci si può rivolgere ad altri autori, non ne mancano! Altrimenti bisogna attrezzarsi per il viaggio.