Andreotti, Fellini e Sordi: Io so’ io…
Per i 100 anni di Sordi e Fellini ci piace essere l’unica voce critica di una corale ovazione di sussegui e sperticamenti per questi grandi personaggi. Voglio porre un tema anacronisticamente “politico”: valutare quale ruolo possono aver avuto questi grandi italiani nella formazione degli altri italiani. In questo ci aiuta la quarantennale amicizia dei due con Giulio Andreotti, siglata nelle partecipazioni, superflue e stucchevoli, nel Film “Il tassinaro”. I tre erano quasi esattamente coetanei, vivevano nella città eterna durante la seconda guerra mondiale, imboscati grazie agli imbrogli di suocero, padre e padre naturale. Mentre tutti gli italiani rischiavano (o perdevano) la vita in una tremenda guerra, i tre facevano serenamente carriera all’ombra del cupolone e del fascio. Questo periodo, di enorme importanza per un essere umano (i vent’anni), segna la filosofia dei tre che, già dal 1951, quando Andreotti era a capo del cinema italiano, crebbero insieme, politicamente e professionalmente. Fingendo di non fare politica, i due artisti portarono avanti un cinema guelfo e non cristiano, che riuscì a far dimenticare il neorealismo, odiato da Belfagor. Non abbiamo avuto una nostra “caccia alle streghe” cinematografica, ma il compiaciuto modello vanesio, rappresentato dal cinema voluto da Andreotti, creò una “incoscienza” politica che si completò con la TV berlusconiana. Anche i premi Oscar avevano un loro movente politico (presidenza Eisenhower).
Fellini, nella tarda età, si rese conto del baratro preso, come si intuisce nel tristissimo “Ginger e Fred”. Già in “Amarcod”, l’apparizione dei fascisti, dal fumo del nulla, dava un certo sentore. Oggi la scena risulta involontariamente profetica, messaggio del costante riapparire del mafiascismo.
Forse nei pettegolezzi romani non circolava la certezza di “una autentica, stabile ed amichevole disponibilità” di uno dei tre verso la mafia. Ma certamente era risaputo che lo stesso politico commentò l’assassinio di Ambrosoli con “Se l’era cercata”. L’indifferenza verso il rigore morale e professionale di certi personaggi della “Dolce vita”, reali o sognati, è la cifra di una Italia cinica e sconclusionata che, come “8 e 1/2”, parte senza un piano, un progetto, ma con una congiura. Una nazione che resta per sempre incompiuta e approssimativa, suscitando il dileggio del mondo intero.
Francesco Nicolosi Fazio