Il romanzo è insaturabile, è come l’uomo, come la verità, è una “tensione a”. Sembra dirci questo Anna Maria Giarratana con il suo romanzo (o Libro di famiglia) “Una nave, una bottiglia una zattera”, edito da Prova d’Autore. Non bisogna leggervi nessun rimando esotico, in quanto l’unico viaggio in mare intrapreso è quello dell’uomo moderno che fa i conti con se stesso.
Leggo sin dall’incipit una dichiarazione meta-letteraria, tanto che definirei l’opera stessa un “meta-romanzo” o si potrebbe parlare di “meta-scrittura”. Si assiste quasi ad una storia d’amore tra l’autore e la sua storia, entrambi anime gemelle destinate prima o poi a ritrovarsi e a non lasciarsi più. La Giarrata inizia proprio così: “L’incontro tra la storia e l’Autore è sempre casuale. Tuttavia, è una di quelle circostanze in cui la casualità è solo apparente, piuttosto frutto di una forte attrazione che ognuno dei due tende a minimizzare, ostentando indifferenza e disinteresse. I due vanno avanti per un po’, poi si dicono che non sono fatti l’uno per l’altra e si volgono altrove. In pochissimi casi il loro è un addio, in molti, invece, anche a distanza di decenni, l’uno torna a pensare all’altra”.
La volontà di coniare, anche solo per puro esperimento, una struttura narrativa nuova è chiara sino a divenire manifesto programmatico, nell’arresa dell’Autrice persino alla manipolazione da parte del lettore, in quanto nessun obiettivo in Lei coincide con il dare un proprio senso, l’opera prende vita, divenendo un essere a se stante capace persino di auto-riflessione. E forse è proprio qui che si rintraccia un elemento profondamente moderno. Non vi è nessuna pretesa di conferire una forzata coerenza, si accetta l’unica soluzione possibile, che è quella di dispiegare, in successione, in reti, frammenti di storia, come in un puzzle. La presenza di frammenti potrebbe far pensare ad una scomposizione anche grafica della narrazione, eppure così non è perché, paradossalmente, la frammentarietà si sviluppo in un unico corpus letterario senza la presenza di scansione in capitoli, un corpus che, tuttavia, si può rimirare da più scorci. Potenzialmente anche in questa architettura potrebbe riscontrarsi una progettualità, eppure anche essa è del tutto assente, volutamente, cedendo il passo alla “destrutturazione”. Il lettore è posto in mezzo ai “lavori in corso” di un romanzo, dinnanzi agli stessi crucci di uno scrittore. La precarietà di ogni frammento è legata sì alla precarietà della memoria, ma anche alla consapevolezza dell’individualità, del margine di interpretazione, come un abito elasticizzato che si sa verrà provato da magri e da grassi e si stende per andare bene sempre a tutti. Non parlerei di arresa al lettore, non rientrerebbe nello spirito dei personaggi, così come non nello spirito dell’Autrice. Semplicemente non ci se ne cura: ciò che importa è mettere nero su bianco, che poi si pensi ciò che si vuole. Ed è anche nel rapporto con il lettore e con le leggi del mercato che l’Autrice si misura, in una riflessione, forse un po’ amara, da cui tutti gli scrittori passano prima o poi.
“I romanzieri, disorientati dall’imprevedibilità del mercato, dall’inflazione, dall’alto costo della carta stampata, sgomenti dinanzi alla prospettiva di vedersi i soli lettori delle loro opere, si interrogavano su una nuova formula di romanzo […]
[i lettori]
frettolosi e annoiati che avidi di emozioni cercano sulla pagina l’ennesimo brivido da affiancare ad altri raccattati qua e là tra una corsa e l’altra. Nessun pensiero altro: l’autore, un incidente di cui però bisogna ricordare il nome. Che sciocchezza!”.
E ancora la letteratura che riflette su se stessa: “il romanzo è il ricettacolo di infiniti altri possibili romanzi”, che sembra richiamare In una notte d’inverno un viaggiatore. E ancora, mette a confronto il romanzo, il “povero”, con il suo “fratello nobile”, la tragedia, il “ricco”, soprattutto per quanto concerne i personaggi che popolano le vicende e persino la filosofia dello stesso genere letterario. La Giarratana scrive infatti: “Il romanzo, nato per ultimo, aveva composto la natura dell’arte e, pronto ad ereditare anche le scorie, aveva aperto le braccia raccogliendo qua e là quello che i più nobili dei fratelli avevano lasciato cadere […] la tragedia li sfiora
[i personaggi del romanzo]
ma non li sublima. Così, già provati dall’amarezza di una sorte di ripiego, di un destino “altro” rispetto a quello a cui aspiravano, bussano alla porta del romanzo”. Questi ultimi non riescono a trovare la catarsi che invece l’eroe greco, morendo, finalmente raggiungeva, si trovano invece come in una condizione di stallo, in cui nemmeno la grazia della morte è concessa a porre fine alla miseria e al ridicolo suscitato dai loro crucci. I personaggi del romanzo sono dei frustrati e solo quest’ultimo può redimerli, dando loro la voce e la libertà per esprimere l’incompiuto. L’Autrice definisce lo specifico genere narrativo come un Padre buono che non respinge mai i suoi figli. Nel leggere queste dichiarazioni sembrerebbe di sentire qualche eco di quelle che erano le correnti che a cavallo tra il XIX e il XX secolo rivoluzionavano la Letteratura internazionale. Traspare infatti la simpatia per quelli che sono i personaggi secondari della Storia, quelli rifiutati perché poco brillanti, poco all’altezza dei canoni socio-culturali, si potrebbe parlare di “vinti”, eppure questi ultimi sono coloro che hanno permesso e permettono che il materialismo della società capitalistica li inserisca nel proprio turbinio, aprioristicamente, deterministicamente, onnipotente. Sembrerebbe proprio così se ci si fermasse alle prime pagine: “la borghesia, come rifugio dai fallimenti e dagli effimeri successi sul piano dell’individualità. Sono questi i vinti che si stringono l’uno all’altro nell’anticamera del romanzo, incapaci di comunicare e di ascoltare […] il protagonista del romanzo si afferma all’insegna di una negazione: non è un eroe e per questo acconsente a divenire personaggio, protagonista di una storia che riesce a salvarsi nella misura in cui conserva la sua potenzialità narrativa […] sempre in lotta per non lasciarsi sopraffare dagli altri, riesce ad appropriarsi solo di frammenti della sua esistenza”. Il lettore resterebbe di questo avviso se si soffermasse alle prime pagine, ma accadrà l’imprevedibile. Anna Maria Giarratana non ha le stesse intenzioni di Balzac, di Zola o dei Goncourt, sebbene si voglia allontanare come loro dalla ideologia del periodo romantico. Certo è che proprio nell’Ottocento la Letteratura si pone il problema della psicologia umana da indagare con lo stesso metodo caro alle scienze empiriche. Tuttavia la Serena della Giarratana si opporrebbe con fervore alla dichiarazione di determinismo dei Naturalisti, guerriera di quello che invece chiama “possibilismo”, non lontano dall’attuale relativismo einsteiniano. E ancora, nonostante il comune oggetto di simpatia, altre differenze: Alice e l’Autrice sembrano sovrapporsi e le riflessioni “meta-letterarie” si contrappongono all’impersonalità programmatica di Flaubert. Se Zola scriveva “la letteratura classica e romantica corrispondevano ad un’età di scolastica e teologia”, per la contemporanea scrittrice siciliana non è una questione di spiritualità, bensì del modo in cui l’uomo vede se stesso, che ha portato prima dal mito all’epica e dalla tragedia al romanzo, e poi dal Romanticismo al romanzo moderno. Solo una cosa i due autori condividono: il romanzo è un esperimento sull’uomo, anche se ad Anna Maria piacerebbe più il termine “viaggio” (magari in nave). Ma non le interessa la denuncia dei fatti né lo sguardo “asettico” e fedelmente oggettivo. Si apre infatti nella Giarratana la dimensione surreale che invece caratterizza i toni, i viaggi, i luoghi (anche della mente). Se il Naturalismo si rifiuta di guardare agli eroi e, dato uno sguardo alla classe media e medio-bassa, vede solo degrado, l’Autrice vede tutt’altro, vede una ricerca della Verità, che fa i conti comunque con la Storia. Non a caso allora Anna Maria Giarrata è una nostra connazionale (corregionale), nata nella terra dove in Naturalismo ha attecchito in una sua forma del tutto personalizzata per interposto filtro italiano (siciliano) che ha fatto sì che ci fosse concessa l’ambiguità della doppia interpretazione nel nome della barca dei Malavoglia, Provvidenza. Ma i personaggi qui indagati sono tutt’altro che “vinti”, perché troveranno alla fine il modo per far quadrare il proprio cerchio, sebbene distanza di generazioni.
C’è una voglia di staccarsi invece, con repulsione, dalla pesantezza dell’Ottocento che faceva apparire ogni storia un macigno. Del materialismo infatti si respirava l’aria, aria che qui invece è molto più rarefatta, più salmastra ma con una brezza leggera a recare ristoro, il ristoro degli affetti mai rinnegati. E’ qui la ragione per cui questi “personaggi qualsiasi” si librano come in un quadro di Chagall in un percorso museale che li conduce fino alle tele di Salvador Dalì.
E’ un “crepuscolo” ma sempre “in procinto di” (com’è d’altronde nella sua natura) e non arriva mai davvero la notte, e, anche quando, c’è la luce della luna a rischiarare i visi volti a guardare verso l’alto, affinché non ci si dimentichi mai del giorno, anch’esso in perpetuo appropinquarsi.
Si oppone poi l’opera a quelle spinte distruttive del Futurismo, difendendo la tradizione che si ponga in continuità, nella convinzione che passato, presente e futuro non possono rinnegarsi a vicenda e anzi non potrebbero nemmeno percepire se stessi senza l’accettazione della dignità degli altri.
Allora forse potremmo accostare “Una nave, una bottiglia, una zattera” alla corrente neorealista, caratterizzata dall’indagine sulle contraddizioni interne al personaggio, tra dubbi esistenziali (la ricerca della Verità di Carlo, Tommaso, Michele) e sconcerti dinnanzi alle devastazioni storiche (come Michele con la nascita del regime fascista e l’ingresso dell’Italia in guerra). Il narratore esterno poi si affida ad una focalizzazione corale, tra voci che si intercalano.
Ma “Una nave, una bottiglia, una zattera” è un romanzo moderno, in cui i personaggi analizzano se stessi, ma è un auto-riflessione che il romanzo, in parallelo, attua su di sé. Se nel teatro pirandelliano i personaggi scendono dal palco e si mescolano al pubblico, magari alla ricerca di qualcosa, il romanzo si spoglia e il narratore con lui, mani in alto questa non è una rapina ma un’arresa a quello stesso “possibilismo” che ha guidato la vita di Serena, la nonna. E come fa Zeno Cosini, anche la Letteratura riflette su di sé, mentre lo stesso fanno in coro personaggi, un coro polifonico però, sempre. Il riferimento ad uno dei personaggi sveviani non è casuale, in quanto essi, sì, sono antieroi, tuttavia non con la medesima coloritura semantica che investe i personaggi della nostra Autrice. Con Lei non si parla mai di inettitudine: Tommaso avrà percepito una sconfitta ma di fatto fu lui a dare il via a quella che si rivelerà la strada maestra per pervenire alla quadratura del cerchio, alla redenzione. Dunque antieroi in contrapposizione ai personaggi romantici, ma essi divengono “eroi del quotidiano” dinnanzi a chi invece riesce a far scorrere la vita solo su un piano interiore, arenandosi al di qua di se stessi, sono eroi perché trovano la vita nei legami affettivi che invece gli antieroi sveviani non riescono ad afferrare, a trattenere, a vivere. Sono eroi e non scarti della letteratura, perché la loro forza sta nel non arrendersi dinnanzi alle difficoltà della vita nella sua inerzia e nella pressione soffocante dei conformismi che la società attuale vuole imporre, si sacrificano per far sì che qualcun altro possa fare quello che loro non hanno potuto (come Tommaso con il figlio Michele), sono i nostri nonni e i nostri genitori. Può davvero, alla luce di ciò, essere accostata la “malattia” di Tommaso al male dell’anima moderna di Pirandello e di Joyce? Mi piacerebbe sapere come la pensano al riguardo gli stessi personaggi che, freschi di stampa, hanno finito per vivere davvero, sebbene privi di carne ed ossa. Io, nel mio piccolo, posso solo pensare a quanto l’uomo sia sempre più robotico e sempre meno spirituale, allontanandosi dalla sua Natura, quella che lo vede in armonia con il mondo che abita, accostandosi invece ad un’era che è già iniziata da un po’ e che vede, nella battaglia uomo-natura, la catastrofica mutilazione reciproca. L’uomo moderno allora percepisce una “malattia” che non sa definire e spesso muore senza averla tradotta. Eppure continua a consigliare agli altri e a se stesso quanto i compagni di classe avrebbero consigliato al giovane Michele: “forse quello che tu cerchi è esistito un tempo, ma adesso c’è solo tempo per vivere, senza fare tante domande, senza andare troppo per il sottile”. E’ per questo che l’uomo è “malato”? Perché non si pone più domande e vuole solo le risposte, preconfezionate?
Questo piccolo excursus attraverso una piccola parte della storia della Letteratura può essermi stato indotto dall’orientamento della stessa Scrittrice siciliana, docente di Letteratura italiana, e dunque il ripescaggio della tracce storiche del suo sperimentalismo può esser letto come un mio omaggio alla professione che di certo l’ha condotta ad avere un orizzonte molto ampio con cui confrontarsi e dunque con cui crescere (non avrei pensato si trattasse di opera prima edita).
Ma tornando alla meta-letteratura, l’Autrice va ancora più a fondo, portandosi su di un piano diverso da quello dello stile, sino ad interrogarsi sul legame tra il silenzio e la parola: “che rapporto c’è tra il silenzio e la parola? Chi “è stato” per primo? Il silenzio è figlio della sconfitta del caos, dell’informe, il momento della pienezza dell’essere che non vive fuori di sé. Il silenzio lacerato restituisce, attraverso la eco, le parole sillabate perché esse, una volta nate, non possono più tornare a lui: il loro esilio diventa eterno. Se fosse consentito il ritorno al silenzio, la conquista e la ricerca della verità sarebbero più facili, se la risultante sulle “verità” tra gli uomini è quella che nasce dallo scontro e dal confronto delle parole tra di loro”.
Alice, la protagonista appartenente alla generazione più giovane, si definisce “rapsodo”, nel tentativo di riportare tutti i frammenti all’unità, di ricondurre tutte le voci dal silenzio alla parola, sino alla storia. La scrittura, per l’Autrice stessa come per Alice, è restituire la vita. Essa può avere la conditio sine qua non nella morte in quanto solo così si passa dallo stato di “lineare unidimensionalità di tante frammentarie esistenze” (vita) ad un altro, di “circolare poliedrica pluridimensionalità delle tante vite che si ritrovano” (post-mortem). Morte e silenzio possono essere qui sinonimi l’uno dell’altro? Sarebbe bello poterlo chiedere un giorno all’Autrice.
Ma sono queste e altre le caratteristiche che rendono lo stile narrativo profondamente moderno, soprattutto lì dove contrasta con la realtà storica che ci porta invece molto indietro nel tempo quando il narratore retrocede alla generazione di Tommaso e poi a quella del tormentato Michele. Ci si trova infatti nel ventunesimo secolo, prima, poi a cavallo tra le due guerre per avanzare di nuovo al secondo dopoguerra, sino ai giorni nostri, ripercorrendo il sogno italiano che guarda all’America e l’odierna immigrazione soprattutto dai paesi africani. Il tema resta sempre il mare. Ma la Storia, fatta di camice nere e carretti, di biscotti e contabilità, cozza in modo del tutto originale nel Romanzo con quella costante linea meta-narrativa di autoanalisi meta-letteraria, moderna, magica e celante quella che è una ricerca anche tecnica e scientifica seppur di ambito umanistico. In ciò mi fa pensare, certamente limitatamente a questo insolito accostamento, alla trovata del regista messicano Guillermo del Toro con Il labirinto del fauno, in cui accosta alla cruda realtà storica del giovane regime di Francisco Franco (immediatamente dopo la fine della guerra civile spagnola) all’ambigua dialettica “esistono le fate o la bambina è matta?”, dialettica tutta moderna che vede schierate psicologia e magia in una guerra senza fine. Ma sviluppare questa diade significherebbe uscire fuori tema e andare al di là di quello che vuole essere solo un piccolo e furtivo accostamento alle coppie passato-presente, classico-moderno, storico-contemporaneo. Ma questo rimando serve anche per fare un altro collegamento, quello con il Tempo: il tempo della Giarratana è il tempo interiore della storia, che non è quello cronologico ma si rispecchia con quello della mente. È solo per questo che è possibile ricucirlo, questo tempo, a modo proprio, non in una semplice autobiografia da parte dei personaggi, ma sarebbe più corretto parlare di autobiografia introspettiva, dal momento che la ricostruzione è del rapporto tra Sé e la propria storia, non della storia in sé. La narrazione non è dei fatti, contro ogni intenzione cronicistica, ma della mente. Si compie in tal modo quasi un’astrazione da sé, intento a sorvolare e contemplare più livelli. È il racconto delle sensazioni e dei sentimenti, dello spazio trasfigurato del simbolo, dove la realtà esterna si deforma per essere essa stessa più aderente alla realtà della mente. Ciò mi permette di azzardarmi ancora una volta e parlare di Surrealismo: la dimensione onirica la si rintraccia per esempio nei sogni che l’Autrice racconta con maestria ed esattezza anche simbolica. Un sogno di Tommaso, per esempio, lo catapulta in mezzo a giganti clessidre, “solenni”, e lui “armatosi di scopa si era dato un gran da fare a lacerare le ragnatele, ma tante ne strappava tante tornavano a formarsi”, il suo compito era quello di “rimettere in moto quelle clessidre […] riappropriarsi di quelle vite e del tempo trascorso” (sebbene il personaggio si ponga il problema in forma di domanda). Ma ancora lo zampino di Anna Maria Giarratana: “quelle clessidre, quei granelli inermi di sabbia, custodivano ciò che del loro esistere rimane agli uomini che vogliono raccoglierne le fila: una storia potenziale”. Allora immagino, con la mia fantasticheria, al posto degli orologi molli della Persistenza della memoria, un romanzo fuso e sgocciolante, lasciando – guarda caso – sul fondo il mare.
Il mare, perché sempre il mare? Ma in fondo cosa rappresenta per i personaggi e per l’Autrice stessa? È chiaro che assume significati diversi a seconda dei personaggi e l’evoluzione semantica parte dal “trauma” di Tommaso, che vi ha visto morire, adolescente, il suo migliore amico e per lui da allora è diventato sinonimo di morte… ma arriva fino ad Alice che riscatta tutto e tutti perché il mare è, con il suo moto perpetuo, con le onde che tolgono e restituiscono, la vita. Il mare prende ma il mare dà, sempre, come forse restituirà un giorno quelle bottiglie piene di sogni e speranza che i nipotini di ultima generazione, con una Alice ormai vecchia, avevano affidato alla corrente sotto un cielo stellato. Mi sembra di vedere un mare antropomorfo, in un moto circolare, come celeste, che mette ordine nel ciclo delle vite, che possono essere vite di speranze come di paure, di propositi come di persone (seppur nel loro ricordo). Ma il mare è anche uno specchio in cui ognuno rimira se stesso o le proprie percezioni, ecco allora che è possibile leggervi vita o morte. Ma nel caso di quest’ultima, è solo facendovi i conti, guardandola in faccia, che la si può sconfiggere per poter finalmente ritornare alla vita, perché è in “mancanza” che nasce il “desiderio”, desiderio di ciò che è oggetto della “presenza dell’assenza”, come Lacan avrebbe argomentato. È inutile fingere che un problema non esiste, se lo ignori si indispettisce e grida, sempre più forte, finché non sarai costretto ad ascoltarlo e a quel punto sarà lui a proporti un patto, o ad ascoltare le tue condizioni, forse potrebbe accettare di risolversi, forse potresti spegnerti con il sorriso sulle labbra. Per questo la vita (il vivere, non il sopravvivere) – come la narrazione – è un viaggio che si conduce a bordo di una NAVE su cui far salire tutto ciò di cui davvero abbiamo bisogno, tutto ciò che vale la pena salvare dal mare (dell’angoscia), per ogni naufragio potremo sempre salvarci su di una ZATTERA portando con noi i nostri cari mentre l’eroe si trasforma in vela (e Serena lo è stato per tutti, sebbene anche Tommaso si sentisse tale), e, una volta giunti su una spiaggia, potremo servirci sempre di una BOTTIGLIA per mandare messaggi di speranza nutrendo al contempo la nostra, per custodire un sogno e lasciarlo al mare aspettano che ritorni un giorno a riva, a noi. Il mare allora è un po’ come l’uomo, incostante, prepotente, beffardo, ma anche paziente, fedele, grato. Quale sarà la verità?
La verità… è ciò che cercano in fondo tutti i personaggi della Giarratana, ognuno a modo proprio, ma è quella stessa Verità che va cercando il romanzo moderno sin dalla sua nascita. “Verità stessa è una parola che nel silenzio la eco continua a rimandarci, ma la sua patria sembra non essere di questo mondo, se tutti continuano a cercarla”, scrive all’inizio l’Autrice. Ma con l’evolvere delle storie si evolve la storia di questa realtà ultima: “forse la verità, la bellezza, la libertà sono ovunque in ogni cosa. Ogni cosa contiene la sua piccolo o grande parte di verità, sta a noi scoprirla e contentarci di essa, custodirla e regalarla agli altri non come certezza ma come possibilità da misurare con quella che ognuno troverà”. Poi fa qualche passo indietro, ma senza rancori: “ogni verità ha in sé una parte più o meno grande di inaccessibilità, una zona oscura che non può essere violata, di fronte alla quale bisogna fermarsi”. Eppure quella Verità il romanzo, come la vita, alla fine la trova sempre, perché la realtà sta nelle parole conclusive di nonna Serena: “se ogni cosa può assumere un numero infinito di forme, se tutto può essere e non deve essere, perché negare che anche la verità non è estranea al relativismo della possibilità?”.
Non è barare, è aprire gli occhi.
Giulia Sottile