Nel centenario dell’ingresso dell’Italia alla Grande Guerra, in molti si sono mobilitati in memoria di quel triste pezzo di storia, nessuno lo ha però fatto attraverso opere e vita degli scrittori siciliani che vissero in quegli anni. “Gli scrittori siciliani e la Grande Guerra” è infatti il sottotitolo che reca il nuovo libro del romanziere e saggista Salvatore Scalia, “L’Apocalisse degli automi” (Domenico Sanfilippo Editore).
Sono certamente molte le fonti a cui l’Autore, da giornalista professionista quale oltre tutto è, ha avuto accesso e altrettanti i libri che ha consultato e letto. Lungo il viaggio nella guerra attraverso la letteratura (o viceversa), emerge più di una tesi, in trasparenza. Innanzitutto la trasposizione dei concetti di industrializzazione, produzione di massa, alienazione… tutti figli delle innovazioni tecnologiche – e conseguenti trasformazioni socio-politiche… trasposizione di questi concetti dall’economia/sociologia al campo di battaglia. Ad essere industrializzati erano l’orrore, i massacri, le sofferenze. Scalia scrive «la serialità produttiva della società industriale si era trasferita sul fronte e produceva morti con gli stessi ritmi di una catena di montaggio».
A raccontarcelo sono quegli scrittori che alla guerra hanno partecipato, direttamente o indirettamente, loro malgrado, e che l’hanno sofferta, schierandovisi in principio a favore o contro per ripiegare poi tutti sulla desolazione di tanta distruzione. Si formano dei veri e propri fronti intellettuali. Rosso di San Secondo e Pirandello da fascisti simpatizzavano per gli interventisti. Il primo profetizzerà «l’ascesa funesta del nazismo» – augurandoselo – il secondo dovette affrontare un conflitto interno – elaborato nella scrittura – tra l’amore per la cultura tedesca e l’astio per la Germania. Questo, cruccio sentito in Sicilia da molti uomini di cultura del tempo, come Giuseppe Antonio Borgese, quest’ultimo, antidannunziano, del parere che la guerra non avesse alcun senso. Nemmeno i soldati sapevano davvero perché si combatteva ed erano i superiori a doverglielo spiegare, erano confusi sulla politica contemporanea a tal punto che ne mascheravano il disagio con irremovibilità a vote estreme – come continua ad accadere – tanto più infervorite quanto insicure. A condannare la guerra sono anche Federico De Roberto(che assunse una «posizione di rifiuto, lontana dalla retorica degli interventisti alla Marinetti, o dalla memorialistica irredentista, e ancora di più dal dannunzianesimo esibizionista», e lontana anche dall’iniziale interventismo di Giovanni Verga), Francesco Lanza (secondo cui la guerra era disumanizzazione, «incretinimento»), Giuseppe Tomasi di Lampedusa (che riflette su come l’uomo sia diventato indifferente alla morte, lui, che era riuscito in gioventù a sottrarsi alla caccia, non poté sottrarsi alla leva militare e trascorse un anno al fronte – ben più atroce – e qui Salvatore Scalia ci racconta l’esilarante aneddoto delle lettere che al poco più che maggiorenne Giuseppe la madre inviava, apostrofandolo con sviolinanti «Ponuzzo mio dolce» o «Pony mia»), Vincenzo Rabito (altro scrittore siciliano ad aver partecipato imbracciando il fucile e maledicendo la «Madre Patria» per cui era costretto a combattere, «Il ladro coverno ni ha chiamato per antare a farene ammazzare» – qui è il caso di dirlo “braccia tolte all’agricoltura”). Pirandello ci racconta del figlio andato in guerra e poi catturato, le pene nell’attesa del suo ritorno. Luigi Capuana, contrapponendosi al pirandelliano scetticismo, scrisse sullo spiritismo che in quegli anni fiorì ad alimentare le disperate speranze dei familiari rimasti a casa mentre figli e mariti andavano a morire. Tomasi ammette che almeno i nobili potevano permettersi di pagare ingenti somme per ridurre la leva di tre anni ad uno. Rabito racconta, come in una confessione, lo stupro etnico a cui partecipò e che non ebbe giustizia, si limitò a giustificare le atrocità con la deumanizzazione generale («certo che erimo state tre iene»). La sua corrispondenza veniva censurata, cancellate le dichiarazioni antibelliche e sostituite. Furono quelli gli anni dello sciacallaggio, già provato nel 1908 con il terremoto “apocalittico” di Messina, dopo il quale si credeva nella «rinascita civile e morale» (e nella guerra molti vi vedevano il mezzo, senza prevedere la «catena di produzione di una macelleria industriale di carne umana»). Furono i tempi dell’emancipazione femminile mentre i mariti erano al fronte (al quale potevano accedere solo nella veste di infermiere o di cocotte), emancipazione durata sino all’inizio del fascismo che le ricollocò in posizione subalterne. Scalia ci racconta di un caso isolato della poetessa al seguito dei futuristi, Adele Gloria, che, sposata, scomparve dal panorama letterario. De Roberto, nel raccontare la sua esperienza bellica, scrive di un’Italia plurilinguistica, con la sua babele dei dialetti (Scalia ribadisce come la Grande Guerra fu forse la prima volta in cui gli italiani si sentirono tali, accomunati ora da qualcosa).
Scalia dedica una sezione alla letteratura “bellica” del secondo conflitto, nell’Italia del ’43, rintracciando tracce di storia nei soliti Pirandello e Rosso di San Secondo, che apprezzavano e alimentavano i fermenti culturali della Repubblica di Weimar, ma anche in Ettore Majorana che descriveva da Lipsia l’ascesa del nazismo, in Mario Grasso e Sebastiano Addamo, in Nino Savarese. Quest’ultimo racconta della totale perdita di solidarietà, dello stravolgimento di un mondo e del rapporto armonico uomo-natura, «se prima i contadini scrutavano il firmamento per sondare i suoi misteri […] ora il cielo ha perduto la sua sacralità e i suoi secolari silenzi», con lo sbarco degli angloamericani «Nell’Italia delle leggi razziali […] sono i neri a portarci la libertà». E anche la mafia al potere, interverrebbe a dire qui Leonardo Sciascia, condannando la «malattia del trasformismo», che anche Enzo Marangolo erigerà a male assoluto, insieme all’ineluttabilità della corruzione, e a caratteristica peculiare dell’isola, alimentando per secoli una rassegnazione insita nel senso comune d’un intero popolo. Ed è qui che emerge la tesi più interessante di Salvatore Scalia. Dovremmo mettere da parte tutto ciò che abbiamo imparato con De Roberto e Tomasi di Lampedusa, tutto quanto Sciascia ha riconfermato con l’inesorabilità della corruzione umana e dunque politica, dai Mille a Mussolini e da questi alla Repubblica, con il motto tutto deve cambiare affinché resti com’è. La stessa C.I.A. (allora O.S.S.) segnalava «l’opportunismo dei fascisti che si riciclano». Certamente. Ma Scalia non è d’accordo col motto derobertiano e noi siamo stati fuorviati. È mentalità che «ha alimentato una sfiducia cosmica sulle sorti dell’isola». Ebbene le cose posso davvero cambiare e non alla maniera dei gattopardi? C’è chi si serve della letteratura.
Giulia Sottile