L’esordio narrativo di Fabiola Marsana

“Il gelsomino notturno” è la silloge di racconti con cui Fabiola Marsana, avvocata originaria di Butera, esordisce nella narrativa. Si tratta di memorie riemerse dall’infanzia e dall’adolescenza, fotografie di momenti di vita vissuta in famiglia e in rapporto a costumi e tradizioni espressione di una identità locale unica, quadretti di una cultura, di un popolo, di un’epoca. L’Autrice li immortala con un linguaggio semplice ma espressivo, ricorrendo a tutti i 5 sensi, accompagnandoci per mano nell’ascolto di suoni, sapori, profumi, tra i colori delle campagne. Il risultato è una galleria d’arte in cui sono in corso una degustazione e un concerto. Basterebbe scorrere l’indice: fichi d’india, gelsi, mandorle, pomodori, e addentrandoci troviamo i dolci tipici delle varie festività (Natale, Pasqua, San Rocco).
Il merito di questa plaquette viaggia su un doppio binario:

  • quello di vivificare un mondo oggi in via di estinzione – basti pensare all’introduzione dei macchinari per i raccolti, ma anche al crescente disinteresse delle nuove generazioni per l’autosufficienza – un mondo fatto di armonia uomo-natura;
  • quello dell’elaborazione del proprio vissuto, nel ricorso alla narrazione autobiografica, che diviene modo per collocarsi sullo scrimolo tra passato, presente e futuro, in un percorso che chiarifica a noi stessi chi siamo e dove stiamo andando.

È armonia la condizione in cui ci troviamo, anche se spesso a nostra insaputa o contro la nostra volontà, quella di essere noi esseri umani – che ci crediamo dominatori dell’universo – solo una delle parti che compongono un sistema complesso con leggi proprie, e neppure la migliore. Lo sappiamo ormai. Ma… lo sentiamo? Nella vita di tutti i giorni ci accorgiamo di questa profonda connessione tra tutte le cose? Oppure siamo troppo presi dai nostri problemi, spesso frutto di mistificazioni della realtà? Immergersi in esperienze come la raccolta delle mandorle o seguire in tutte le sue fasi la preparazione della salsa di pomodoro, oppure ancora osservare il gelsomino notturno che si schiude, ci inondano con una sferzata di questa consapevolezza.
I racconti di Fabiola Marsana ce lo ricordano, ma ci dicono anche che bisogna averne fatto esperienza diretta per poter prendere quella magia e renderla parte di sé. Così si può cogliere in questo libro anche un invito alla riconnessione con i tasselli trascurati di noi stessi, un invito ad essere non tanto agenti di azioni ma semplici spettatori. Solo guardando senza giudizio il farsi delle cose davanti ai nostri occhi possiamo apprendere e comprendere. Guardare per esempio come l’intelligenza di questo sistema armonioso abbia messo le spine sui fichidindia e le vespe a guardia dei gelsi.
L’Autrice rievoca le emozioni provate immergendosi nella sé bambina, che guardava per la prima volta alle cose e ne provava stupore. Ma lo stupore è anche quello dell’adulto che riesce a guardare senza preconcetti, ogni volta con occhi nuovi. Lo stupore è quello che ci permette di contattare la bellezza che abbiamo intorno. È la precondizione per un reale e profondo contatto con il mondo, lontani dalle anestesie a cui ci porta la routine. Lo stupore conduce all’ammirazione e l’ammirazione al rispetto.
Il rispetto della Natura diviene un contraltare di quello all’interno del proprio tessuto sociale.
Un aspetto interessante che un po’ tutti i racconti richiamano è la dualità della Sicilia in tutte le sue espressioni. Spesso parliamo di contraddizioni. Un esempio ce lo fornisce Fabiola quando scrive dei fuochi d’artificio in periodo di Quaresima e ci spiega, citando Leonardo Sciascia, che c’è una refrattarietà nei Siciliani a metafisica, astrazioni, misteri, pendendo verso un materialismo che va dal linguaggio ai riti. Un po’ come i popoli orientali, non stanno là a interpretare la realtà sensibile, le attribuiscono dignità in sé e per sé. (E restano profondamente radicati in essa, a differenza degli orientali che passano poi al distacco da ogni forma di attaccamento. Un personaggio come Mazzarò non poteva che nascere in Sicilia). Ma c’è dell’altro: i Siciliani, specialmente quando sono in festa, hanno bisogno di fare rumore.
E che dire della bellissima metafora del gelsomino notturno? Ce lo spiega l’Autrice: come il fiore sfida il buio della notte, a volte nei momenti più bui della nostra vita riusciamo a trovare la luce dentro di noi e fiorire nonostante tutto. Ma potremmo aggiungere anche che forse, a volte, sono proprio le avversità che ci fanno scoprire di avere risorse impensabili – e in questo periodo è il caso di dirlo forte – la necessità tira fuori ciò che in noi era in potenza ed emerge per non farci affondare.
Ancora una volta è Madre Natura, vera protagonista della silloge, ad allenarci alla vita, a darci insegnamenti preziosi.

Oltre al ricordo dei riti e degli scambi tra uomo e Natura, Fabiola Marsana sosta anche sugli affetti, sui rapporti umani. È una nostalgia che oggi acquista doppio significato, perché non solo è rivolta a tempi andati, ma anche a tempi che ci sono sottratti in questo immediato presente di distanziamenti sociali. Così quei ricordi ci appaiono ancora più lontani. A questi legami, si unisce quello con la propria terra, allentato negli anni ma mai reciso e sempre calamitante.
Ma non scambiamo la malinconia per il malinconismo masochista di chi non sa guardare avanti. Si tratta, piuttosto, in questo caso, della capacità di tenere dentro il passato per trare insegnamenti e senso di identità personale.
La scrittura autobiografica in questo è via maestra. La narrazione di sé, quando non sfocia nella “vana autocontemplazione”, è esercizio di pensiero narrativo (necessario alleato del pensiero logico-matematico, sempre più spesso esercitato dall’uomo razionale ma incapace di bastare a se stesso), ci rende flessibili negli spostamenti prospettici, ci permette di costruire il nostro sé, se è vero che il linguaggio costruisce la realtà e se si considera il rapporto tra esperienza, memoria e rielaborazione. Raccontandoci, riconnettiamo lo scenario dell’azione a quello della coscienza, diamo significato alle cose. Questo è tanto più vero nei periodi di transizione del nostro ciclo di vita. L’identità scaturisce dalle continue risignificazioni che facciamo, nell’uso del passato in funzione del presente e alle volte del futuro, nel rapporto tra continuità e cambiamento nel tempo e nello spazio.
Nell’identità c’è tutto il mosaico dei possibili sé, le emozioni che abbiamo provato, le persone che abbiamo incontrato, i luoghi che ci sono entrati nel cuore, quelli di origine e quelli adottivi. Nei racconti, per esempio, è espressa chiaramente la condizione del siciliano emigrato, respinto dalla propria terra e al contempo sempre richiamato, in una lotta costante. E sappiamo anche perché, perché dall’universo infantile l’Autrice passa per progressione alla formazione della coscienza civica di un’adolescente delusa e indignata alla notizia della strage di Capaci, in cui il 23 maggio 1992 sono rimasti uccisi Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta.
Episodio – questo – abilmente preparato narrativamente da segnali come il succo dei gelsi sulle dita che sembrava sangue, sino alla superstizione locale che vuole la civetta presagio di morte.
Il tritolo della strage di Capaci sono le spine del ficodindia, corrispettivo siciliano della rosa, e le spine, una volta entrate, restano dentro per sempre. In questi ossimori c’è tutta la Sicilia ma anche la vita, nelle coppie: notte-gelsomino, gelsi-vespe, mandorle-guscio appiccicoso, fuochi pirotecnici-frugalità della Quaresima, digiuno-tavola imbandita, mafia-responsabilità civile.
La Sicilia è una terra che maltratta i propri figli. Di recente sia io che Fabiola abbiamo partecipato con contributi personali a un libro che è appena uscito con Prova d’Autore, “Una rosa di venti”, monografia sulla straordinaria personalità di Rosa Balistreri, che fu la prima cantautrice nella storia della musica italiana e che, tra le altre cose, racconta attraverso le sue canzoni il rapporto ambivalente con la propria terra. Anche lei esule, a Firenze, cantava “Terra che non trattiene chi vuole partire e niente gli dà per farlo tornare” (traduzione da Terra ca nun senti), ma cantava anche dello strazio di trovarsi lontano da casa e in tutti i suoi testi non c’è che la Sicilia, in tutte le salse.
C’è qui la stessa fiducia che prova l’Autrice quando dà il titolo al libro, quel gelsomino simbolo di riscatto, di rinascita. Ma troviamo questo anche in un’altra immagine: l’aquila, simbolo di resurrezione. “La vita non finisce”, per concludere con la stessa Autrice.

Giulia Letizia Sottile