Quella di Annalisa Distefano è, com’è stata definita, “poesia intima”. È un rivolgersi esclusivamente a se stessa, nella ricerca di frammenti di sé smarriti durante il percorso e da armonizzare con quelli trovati.
Delicatezza credo sia la parola più adatta a definire la silloge “Biancostato” (ed. Prova d’Autore). È aggregato di immagini che rimandano alla quotidianità più semplice. Si percepisce dall’accomodamento dell’obiettivo, zoommato sul dettaglio (come quello della rugiada che sembra crescere sotto i nostri occhi), ma anche dalla scelta del soggetto, che predilige gli strumenti del quotidiano casalingo (come la spugna sul lavabo, i rebbi della forchetta sporca, le pentole, il calendario, il grembiule sgualcito, il pane, il bucato). Come si nota, la zona cucina racchiude più spesso queste suggestioni, con un richiamo alla povertà, intesa come semplicità, umiltà, essenzialità. Ma richiama anche il tema dell’intimo, già accennato nel connotare la poesia della Distefano.
La delicatezza si esplica anche in altro aspetto, che interpella l’acqua che a sua volta rimanda a suggestioni primordiali che ben caratterizzano la maternità, uno dei perni di “Biancostato”. Non sorprende allora che la parola “acqua” sia ripetuta ben 7 volte. Compare per la prima volta sotto forma di pozza, su cui si riflettono come su uno specchio ginocchia nodose che fanno pensare agli alberi storici, che hanno un che di massiccio a contrasto con la leggerezza e la trasparenza dell’acqua, quella della pozza e quella delle lacrime (nella stessa poesia, “(appunto tra i capelli un fiore di zagara…)”). La trasparenza dell’acqua è anche quella della poesia “stagioni”, dove è indice di sincerità e si ricollega allo sguardo, al volto come libro aperto, e al contempo «muta al cambio delle stagioni» con lo scorrere eracliteo del fiume. Ma più avanti l’acqua torna, in “baia…”, insieme ai colori vividi dell’atmosfera mediterranea, ma questa volta porta con sé silenzio, apportando ulteriore carica semantica alla sua presenza. Sembra richiamare proprio il liquido amniotico quando la Poetessa vi s’immerge e si purifica, assolta dal mare. La pace conduce alla lucidità, alla cognizione. Ma aspetta ancora, Annalisa Distefano, a definirla esplicitamente «bolla di amniotico liquido», fino alla poesia “(siamo)”, dove due vite sono parte di uno stesso corpo, contenute insieme nel mare primordiale dove non serve la parola.
Eppure al silenzio si contrappone lo scrosciare che è proprio del ruscello e scandisce il tempo, creando una musica. Ogni componimento ha in sé un pentagramma dal tempo costante, quello della ricerca interiore e della vita, dal concepimento all’età adulta. È il tempo dello scambio archetipico, quello per eccellenza, che si serve del cordone ombelicale. Gli esperti dicono che il primo mezzo di comunicazione dell’essere umano sia la musica. Ci accorgiamo di esistere per via del suono, quello ovattato che ci giunge dall’esterno quando siamo in placenta e quello degli organi interni della nostra ospite. È scandito dal ritmo dei battiti cardiaci e quello del respiro. È questa la prima musica della nostra vita. E si serve dell’acqua per arrivare a noi. Per questo acqua e musica sono indistricabili. Il nostro corpo lo sa bene, anche se la nostra mente non se ne accorge.
Da qui potrebbero scaturire infiniti discori sui tempi dello scrivere ma manteniamoci al di qua del nostro raggio di pertinenza, per arrivare proprio alla maternità. È attraverso la poesia che si dispiega la poetessa donna e madre, identità da sempre in competizione, da sempre desiderose di trovare un’intesa. La Distefano lo fa con la poesia. In “(appunto tra i capelli un fiore di zagara…)”, si legge dell’odore «di carne che trema/ nella cavità di un suono/ alla parola madre, dove la cavità richiama la femminilità e la fertilità, cavità che accoglie e protegge una nuova vita e guarda caso è legata al suono. Si immagina allora che rimbalzi sulle pareti e diventi eco. La parola madre racchiude tutto questo.
Poi (in “cera bianca”) si parla di «circonferenza gestante/ che di linguaggio materno sottile/ ti esulta e ubriaca/ come la cera bianca degli anni». Qui ancora la vita. Perché la cera bianca può darsi sia quella delle candele e cioè materiale che si scioglie quando si accende la fiamma (la vita), così la madre nutre ciò che da lei scaturisce con l’atto creativo, sorregge (perché lo stoppino sta in piedi sorretto dalla cera), ma pian piano si scioglie, si fa di lato.
Il pancione non è vissuto come deformazione del corpo ma come «grazia rotonda», «finestra accesa». Il corpo diviene il luogo dell’amore, dell’intimità, dell’incontro. Incontro tra madre e donna, tra loro e chi si ama. Emerge nella richiesta di tenerezza, desiderata. Emerge nella richiesta di accoglienza. «Non chiudere la porta» (in “paesaggio # 6”). C’è un abbraccio atteso, intriso di quotidianità semplice: qui compaiono le mollette che attaccano il bucato, un bucato però mai steso. Questo apre il tema della contraddittorietà e del paradosso, ricorrente, insieme a quello della mancanza/privazione e dell’incontro.
È malinconia, il sottofondo di ogni periodo. È la solitudine dei capelli che restano soli dopo che il pettine ha sciolto i nodi, che sono come l’abbraccio tra due persone. In una successiva poesia però il pettine finisce per arrendersi o viene cacciato, cade a terra e i nodi restano appesi, sopravvissuti. E’ quindi una vittoria, quella della Distefano, e l’arma sono le parole, ponte tra noi e il mondo. E ciò che consente di trasportare lungo il ponte i significati, che le parole recano, è un treno, su cui è possibile salire a bordo se una mano tesa ci afferra.
In presenza di interruzione, c’è bisogno di contatto. In “(è carne che s’impiglia)” c’è una dissonanza, il viaggiare su due frequenze diverse che cercano di raggiungersi. «Non trovo la tua mano che indica azzurro/ in altro cielo». Eppure la presenza dell’altro è vivida perché è inconfondibile il suo respiro, lei lo riconosce perché ne ha il calco (come una chiave di accesso privilegiata), può agganciarlo a sé e accordarlo per armonizzarvisi. Dunque lo scarto, insaturabile e incolmabile, è tra presenza e assenza, è residuale inesorabile incompleto. Più che mancanza, è negazione di qualcosa, che sta lì davanti ma non la si può afferrare, è stasi. Da qui la malinconia, ma la solitudine non è mai tale nella sua accezione angosciante, ma è il restare soli in compagnia del ricordo, quando qualcosa attorno ci rammenta di ciò che è stato, testimone dell’incontro. Il ricordo è dell’imperfetto e del non-detto. Ed ecco che prendono vita i paradossi (la partenza mai arrivata e il tempo mai vissuto – in “corsa senza fine” – spogliando chi già era nudo e il piacere che non può gioire – in “frammentazione” – ginocchia rotte da preghiere non fatte e porta girevole senza uscita – in “(siamo)”). Tutto ciò si nutre proprio di ciò che non si è fatto in tempo a dire o che è andato via troppo presto, senza avere il tempo di gustarlo. Sfugge di mano, incontrollabile («l’esercito avanza in marcia senza conoscere il passo da tenere»), si è impegnati a capire il come per poter meglio afferrare il cosa. Resta la ferita. Perché la colonna vertebrale, viene chiamata semplicemente “spina”, che regge la schiena ma sembra conficcarsi.
Questo quoziente residuale, proprio della condizione umana e del linguaggio stesso, risiede tra le pieghe del silenzio. Sappiamo ormai come il linguaggio verbale sia il più frequente ma il meno efficace, il meno sincero nell’espressione dei significati. Tutto ciò che deve restare autentico viene connotato dal silenzio, garante. È la stanza muta a descrivere l’amore e s’invita l’altro a non parlare (in “(silenzio)”), le parole sono mute ma si assiste anche a un loro riscatto, attraverso la poesia, che riesce a dire l’indicibile. Così è atto di coraggio ricorrere ad essa, per ricucire il senso. Ciò viene reso in immagini forti come quella ritratta in “binario 27” («la valigia chiude cerniere sulla bocca»). Qui si parla di scambio di valige. Si tratta forse di un malinteso? Non sorprenderebbe. La questione aperta può essere però chiusa, all’incrocio di un binario (cioè con l’incontro-confronto, attraverso un “viaggio verso”) e con «mani vuote», cioè senza compenso. Ciò può accadere a partire dal silenzio, del pensiero, del ricordo o di qualcosa che esiste in potenza o sarebbe potuto esistere. Così la solitudine diviene premessa imprescindibile per il vero incontro e il biancore di molte immagini assume il suo autentico significato di nuova vita, di rinascita e creazione, di possibilità. Un esempio ne è, in “paesaggio # 7”, il bianco dell’abito da sposa, a distanza di anni, appeso a una gruccia, quando il tempo ha agito sulle vite (i seni schiacciati dopo l’allattamento e i denti che dondolano) ma c’è un «secondo risveglio». Secondo dopo quale, la nascita o le nozze? Forse il secondo risveglio è nel mettere al mondo un’altra vita dopo la propria! E cosa, se non la «primavera», può simboleggiare questo passaggio? A dispetto delle «conclusioni», il tempo è l’innesto di una nuova chance, nascita/risveglio.
Questa capacità di trasformazione del tempo, Annalisa Distefano la trova nella valorizzazione dell’istante, in cui arriva persino a identificarsi: «Io sono l’istante che t’accoglie/ nell’imperfetta preghiera che sussurro». Lo si trova nella ribellione dall’ordinario, verso la trasgressione («portami nel caos delle sirene/ scompiglia i miei capelli», in “(stancami di parole)”). Per sentirsi meno in colpa immagina che ciò avvenga solo in sogno ma al contempo chiede di non essere svegliata.
La deviazione dall’ordinario assume sempre più esplicitamente pieghe di erotismo: la poetessa chiede di essere amata di spalle, come se non vedere il volto della persona permetta di agire con maggior disinibizione, di trasgredire meglio, senza vergogna, come accadrebbe se tutto ciò fosse un sogno. Ulteriore compensazione – oltre al fatto che ad essere definita «impetuosa» è la castità – è quella della successiva purificazione («lavami la vergogna», in “(amami…)”) e ciò che resta è equilibrio. In “(trascorsero ore)”, ci si concede di cucinare una cena che non si consuma, perché il tempo dell’amore non vuole aspettare. L’amore è la chiave di tutto, nella sua accezione passionale come in quella tenera, scorta nell’atto del prendersi cura. Così l’attimo dell’incontro tra due persone che si amano viene isolato e diviene cammeo prezioso. Non importa più la consapevolezza che il presente sia destinato a diventare passato, importa solo che esista. Troviamo, per esempio, in “paesaggio # 9”, la delicatezza di un «rimboccami le labbra» che riecheggia il rimboccare le coperte nell’accudire e la dedizione dell’amore che si serve del bacio per rinsaldare un sentimento.
Ma dove trovare la capacità di afferrare questo istante e non lasciarselo sfuggire nella routine che minaccia di appiattire le giornate? Non è casuale allora che ricorra spesso la parola fianco (o fianchi), ben 8 volte (che sia quello della poetessa, del sole o di una chiave). Sembra un indizio, a suggerire il voler vedere qualcosa sotto un’altra prospettiva, ciò che a primo acchito sfugge. E quel qualcosa è all’insegna dell’amore, quello di madre e quello di donna. Entrambe producono estensioni di sé, che sono biancostato.
Biancostato è la propria poesia per Annalisa Distefano e biancostato è anche quel figlio («arteria pulsante, biancostato di materia e fibra») a cui dedica la silloge e che compare più o meno implicitamente tra le righe delle sue poesie. Sono tutti pezzi di sé che si donano al mondo. Così andiamo al senso del titolo “Biancostato”, termine che ha origine nel linguaggio della macelleria e che deriva dalla fusione di “bianco” e “costato”. È un particolare tipo di taglio della carne, una parte grassa che protegge le coste ed è pregiata, tenera, come quella parte di se stessi su cui si ha maggior investimento emotivo-affettivo (la propria poesia, il proprio figlio).
Nell’intento di trovare la chiave interpretativa di questo titolo, nel corso della lettura siamo andati alla ricerca di quanto vi si potesse associare e la parola «carne» (che compare ben 8 volte) sembra svelare, nelle funzioni che via via ricopre, anche la ragione di tale scelta. Biancostato, oltre a essere taglio pregiato, è estensione di sé proprio in quanto carne. È ricorrente l’immagine del corpo nudo, spogliato (qui c’è lo svelamento, la rivelazione di sé), insieme al biancore dei fianchi che è purezza. La vividezza figurativa che richiama il biancostato compare anche nel contrasto tra la pelle e la ruggine, ma anche nei «frammenti di ossa e muscoli». La carne è materia, concretezza, assolvendo così al compito di riempire la mancanza. E diviene protezione, recipiente, sembra un cappotto che la poetessa indossa per ripararsi dal freddo e dalla vita, come il nero della notte copre il mondo (in “(nerocielo)”). Ma poi si spoglia di questo cappotto, si alleggerisce, «nella bolla dei nove inverni si asciuga la carne» e sembra quel 9 richiamare gli anni ma anche i mesi della gestazione e dunque quel significato già attribuito al colore bianco: la nascita. E infatti, guarda caso, è proprio questa la suggestione a cui rimanda la poesia che prende lo stesso titolo della silloge. Il bianco è dei denti svezzati e dei confetti. C’è un bambino di mezzo, nell’attesa della parola (la prima parola?) e nelle colonne (le sbarre della culla o del letto?), nella ninna nanna. C’è un richiamo alla fertilità nella parola «grano», così il cerchio si chiude. È percepita come parte indistricabile di sé il potere di creare la vita, come quella di creare la parola per dar senso alle emozioni e ai vissuti e di trovare la gioia negli attimi.
Giulia Sottile