Testimonianza storica attualissima e meritevole di appartenere al repertorio di letture di ogni siciliano, oltre che al bagaglio identitario al momento di rapportarsi con l’appartenenza al proprio popolo, “Il Vulcano e la sua anima”, opera con cui il giornalista e scrittore Salvatore Scalia esordiva nel 1989, aggiunge alle ragioni per cui dovrebbe essere ancora letto e riletto quelle formativo-educative per i giovanissimi che in età scolare si candidano a essere i siciliani di domani.
Si tratta di un libro che, tra intervalli seri e semi-seri, è fondamentalmente divertente. È un discorso, questo mio di apertura, che lo destina allo scaffale che per ora chiamo “Consapevolmente Siciliani”, con sottotitolo “Prima è Meglio è”. A far compagnia a Scalia, campeggiano libri come “Nel segno dell’Etna” di Laura Rizzo (che si potrebbe suggerire sin dalle medie inferiori), quest’ultimo: raccolta antologica di estratti letterari dei nostri scrittori che hanno fatto la storia della letteratura italiana, a sostegno della tesi che, dall’unità d’Italia sino a metà del secolo scorso, togliendo gli autori siciliani, non resterebbe molto che valga la pena leggere secondo il giudizio dei critici, e in particolare una valenza istigatrice delle doti letteraria l’avrebbe il nostro vulcano, l’Etna, lo stesso che Salvatore Scalia sceglie quale protagonista sotterraneo, filo conduttore e comune denominatore della sua narrazione, suggerendocene l’importanza a partire dalla scelta del titolo, che è, infatti, “Il Vulcano e la sua anima”.
Quest’opera, che è una silloge di racconti storici e di costume svoltisi nella nostra isola nei recenti decenni precedenti alla pubblicazione (1989), se da un lato può rientrare nella categoria della narrativa, dall’altro Scalia mette in trasparenza un approccio da storico, cronista, in ultima analisi: giornalista, lavoro che, da professionista, ha sempre svolto nella vita (per diversi anni ha ricoperto la carica di caporedattore della terza pagina del quotidiano La Sicilia) e che lo ha formato anche come narratore nel colorare il particolare stile che gli appartiene. Imparziale, raramente lascia trasparire il proprio pensiero. Ciò che conta è illustrare i fatti, i dialoghi, antefatti e propositi, retroscena ed esiti, come fosse l’autore stesso il registratore che tiene in mano. La forza evocativa delle forme espressive utilizzate rendono palpabili gli episodi messi in scena – negli anni successivi Scalia si occuperà anche di teatro – e sono esse stesse prodotto lavico, rappresentanza dell’anima del vulcano.
Gli aneddoti ricalcano la storia politica, il costume, le storie della letteratura, dell’arte e dello spettacolo, del cinema, della cronaca, e nella loro successione emerge sempre più, oltre che una fotografia della vita culturale siciliana di una precisa epoca storica, anche quello che chiamiamo, per dirlo con Rizzo, “il segno dell’Etna”. Sappiamo infatti come il siciliano abbia una tempra del tutto caratteristica che lo distingue anche dal resto dei connazionali – e a testimonianza di ciò c’è una notevole letteratura saggistica a disposizione –e Scalia, attraverso la scelta di precisi momenti e precisi personaggi noti, ha ben rappresentato quest’animo comune, tra pregi e difetti. Un’affermazione evocativa di tale tempra la prendiamo dalle parole dello stesso Autore: è «sangue barocco che scorre nelle vene di ogni siciliano».
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Tra i resoconti storico-politici spiccano le confessioni a posteriori di Antonio Pallante, colui che tentò di assassinare Togliatti che allora da un determinato ambiente conservatore era visto come l’incarnazione del demonio. A braccetto con questo personaggio, che emerge nella sua umanità, ne compare un altro, quello di Emma Mauro Fiorilla, preside di una scuola in cui nutriva l’aspirazione di restaurare una disciplina fedele ai canoni e ai metodi cari al rimpianto regime fascista. Per non parlare del simbolico processo a Nino Bixio a un secolo dai fatti di Bronte o del dibattito pubblico-popolare sulla scelta di una povera ragazza di Antillo di cambiare chirurgicamente sesso.
Nonostante Salvatore Scalia faccia sempre in modo di illustrare dall’esterno, spicca il contrasto tra quanto viene letteralmente dichiarato dai protagonisti e quanto si legge tra le righe, tra ciò a cui si vorrebbe credere o far credere di appartenere e ciò che invece in fondo si resta, in una Sicilia combattuta, a metà tra tradizione e rinnovamento, conservatorismo e progresso, in parte ancora rispondente allo stereotipo che altrove ci si è creati dell’isola. Certo, nel frattempo siamo entrati nel ventunesimo secolo, e Scalia ne ha preso nota, senza contare il passo compiuto, con il suo più recente libro – “L’apocalisse degli automi” – per smontare un proverbio radicalmente associato al nostro popolo, il motto de’ “I Viceré” prima e de’ “Il Gattopardo” dopo, quel cambiar tutto affinché tutto resti com’è che a Salvatore Scalia e anche a noi non convince più. La prova va ricercata in persone come la vedova del giudice Terranova, divenuta presidente dell’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia, di cui Scalia parla in “Il Vulcano e la sua anima”.
Giulia Sottile