A proposito di gattopardismi e suoi lasciti, ampio spazio del libro è dedicato proprio all’eredità che la famiglia Tomasi di Lampedusa (e ramificazioni) ha lasciato sul territorio, anche se non sempre culturalmente parlando. L’Autore aveva infatti allora conosciuto e intervistato l’ultima erede, Carolina Tomasi di Lampedusa, e il figlio Giuseppe Tomasi Lo Piccolo, che diedero quasi l’impressione, a conclusione di secolo, di essere saltati fuori per sbaglio dal libro del loro antenato, superstiti dello stesso mondo lì narrato, feudatari dalla vita e dal pensiero propri più del secolo precedente che dell’attuale, catapultati in una realtà contemporanea che non gli appartiene e non può nemmeno contenerli, tanto da riservare loro una vita isolata dal resto della società. Lì dove essa cambia e si evolve col mondo al cospetto di monumenti storico-artistici che si vuole preservare come profilo identitario, i discendenti del “gattopardo” si auto-preservano a fronte di un paese, Palma Montechiaro, in stato di decadimento, privo ormai dei fasti di un tempo, invaso dal degrado della cattiva gestione e dalla globalizzazione. Fotografia di buona parte del rapporto tra Siciliani e Sicilia.
Ma Salvatore Scalia torna anche alla letteratura e alla querelle sul presunto stampo autobiografico dell’opera di Tomasi che avrebbe, secondo alcuni critici, colto nella fiction del romanzo il pretesto per parlare di sé, e racconta di come la biografia che ne fece Andrea Vitello fu subito piegata a ragioni di pettegolezzo con inferenze sulla misura in cui questa operazione si sarebbe verificata. Insinuazioni e sedicenti argomentazioni avrebbero tirato in ballo le vicende intime della coppia (in carne e ossa) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la moglie Alessandra Wolff (dalla mancanza di figli alla chiacchierata e smentita omosessualità di lei), il presunto rapporto incestuoso tra lui e la madre (dalla cui corrispondenza in realtà –si potrebbe semmai evincere che il noto scrittore fosse semplicemente, né più né meno, quello che si dice un mammone), la rivalità col cugino Lucio Piccolo e altre vicende private che, in un ultima analisi, sulla bocca dei più, avrebbero configurato una “impotenza esistenziale” poi sublimata attraverso la scrittura. Il tempo passa e il pane quotidiano del popolo resta il pettegolezzo.
A proposito poi di Lucio Piccolo, poeta ancor oggi forse poco studiato, Scalia scrive delle vicende della famiglia, delle inclinazioni dei fratelli Agata Giovanna e Casimiro (del quale ultimo ci restano alcuni dipiniti, quadri sulle sue fantasie esoteriche), del divertentissimo aneddoto della prima presentazione a Capo d’Orlando delle sue poesie finalmente edite (questioni di cravatta!), dell’affare (e della baraonda che ne seguì) dell’erede da dare al casato dal momento che nessuno dei tre – forse alla luce del fallimento matrimoniale dei genitori – si era sposato. Così apprendiamo di Maria Paterniti, giovane e bella contadina che allora doveva, dietro segnalazione del campiere, fungere da quello che oggi chiamiamo madre surrogata: «Era il 1959 e il grande poeta, un uomo che aveva letto tutti i libri ma conservava una concezione feudale dei rapporti umani, noleggiava il corpo di una contadina perché gli procreasse un figlio», scrive Scalia. Ma al «marchingegno, escogitato per impedire la disgregazione della famiglia e del patrimonio» seguirono dispute e invidie tra le parti in causa che minacciarono la tenuta del piano, sino al pocesso intentato dalla stessa Maria per danni morali, al matrimonio rifiutato da Lucio, ai conflitti per le scelte educative del bambino e alle macchinazioni dei campieri. Che fine avrà fatto l’unico erede dei Piccolo? A noi c’è dato sapere di quella che fu la loro dimora, la cui atmosfera aleggia, oltre che tra le mura e tra gli alberi della villa, anche tra le pagine dello stesso Salvatore Scalia che ce ne parla, un’atmosfera spirituale, metafisica, esoterica.
(Giulia Sottile)