A cu mi viju o capizzu ci lassu u furrizzu

 

Il modo di dire serviva ad avvisare i parenti, stretti a sufficienza, che la nomina ad erede, per quanto scarna fosse la sostanza, dipendeva dalla vicinanza al morituro.

Capizzu indicava infatti il capezzale del moribondo, mentre il furrizzu era un comodo ma povero scranno, realizzato con le ferre, la ferula, pianta endemica in Sicilia, che produce un gambo leggero ma resistente, e stava a rappresentare la povera mobilia.

La questione testamentaria era uno dei crucci fondamentali nel povero mondo contadino, e ha lasciato una traccia persistente, oltre che nel diritto, nella storia della letteratura, nel teatro, e poi nel cinema. E ce n’è motivo: questo dialogo tra morto e vivi, scritto da vivo per un futuro inconcepibile, che si sobbarca di tutta la potenza dell’invenzione romana della roba, del senso del possesso, del patrimonio… Ce n’è d’avanzo.

 

Mi è capitato di recente, trovare diversi componimenti che mi sembrano avere radice comune, almeno come sincronicità, visto che non so dire se l’uno ha preso spunto dall’altro.

 

Serafino Amabile Guastella riporta nelle sue “Parità e storie morali” una filastrocca popolare:

 

IL TESTAMENTO DI UN ASINO.

 

Lassu ‘a testa a lu baruni,

ca cci servi ppi lampiuni ;

lassù ‘u pilu a la zza monica,

ca sì fa ‘na bella tonica ;

lassù l’ugna ‘e cavaleri

ca sì fannu tabaccheri ;

e l’aricchi a li nutara,

ca ni fanu calamara;

lu capistru e lu varduni,

ci lu lassù a lu patruni.

 

Che mi sembra impostata sullo stesso meccanismo narrativo del Testamento di Fabrizio De Andrè:

 

IL TESTAMENTO

 

Quando la morte mi chiamerà

Forse qualcuno protesterà

Dopo aver letto nel testamento

Quel che gli lascio in eredità

Non maleditemi non serve a niente

Tanto all’inferno ci sarò già

 

Ai protettori delle battone

Lascio un impiego da ragioniere

Perché provetti nel loro mestiere

Rendano edotta la popolazione

Ad ogni fine di settimana

Sopra la rendita di una puttana

Ad ogni fine di settimana

Sopra la rendita di una puttana

 

Voglio lasciare a Bianca Maria

Che se ne frega della decenza

 

Ma anche ricorda una poesia di Trilussa:

 

TESTAMENTO DI UN’ALBERO

 

Un Albero di un bosco

chiamò gli uccelli e fece testamento:

– Lascio i fiori al mare,

lascio le foglie al vento,

i frutti al sole e poi

tutti i semi a voi.

A voi, poveri uccelli,

perché mi cantavate le canzoni

nella bella stagione.

E voglio che gli sterpi,

quando saranno secchi,

facciano il fuoco per i poverelli.

Però vi avviso che sul mio tronco

c’è un ramo che dev’essere ricordato

alla bontà degli uomini e di Dio.

Perché quel ramo, semplice e modesto,

fu forte e generoso: e lo provò

il giorno che sostenne un uomo onesto

quando ci si impiccò.

 

 

E poi una canzone di Angelo Branduardi:

 

IL DONO DEL CERVO

[…]

Piango il mio destino

Io presto morirò

Ed in dono allora

A te io offrirò

Queste ampie corna

Mio buon signore

Dalle mie orecchie tu potrai bere

Un chiaro specchio

Sarà per te il mio occhio

Con il mio pelo

Pennelli ti farai

E se la mia carne cibo ti sarà

La mia pelle ti riscalderà

E sarà il mio fegato

Che coraggio ti darà

E così sarà, buon signore

Che il corpo del tuo vecchio servo

Sette volte darà frutto

Sette volte fiorirà

 

Dimmi, buon signore

Che siedi così quieto

La fine del tuo viaggio

Che cosa ci portò?

 

 

E anche una canzone di Vinicio Capossela

 

IL TESTAMENTO DEL PORCO

 

A mia moglie la gran miseria

Lascio il trionfo delle budella

Ha più cuccioli che mammelle

E mai nessuno la può saziar

Lascio il ricordo di quel che è stato

Quando di fianco a fianco

Pascevamo felici nel fango

E di coprirla non ero mai stanco

E se pur non ho visto il sole

Pure del mondo ho conosciuto l’odore

E se mai non ho visto il cielo

Pure è certo, ho vissuto davvero

Nella gioia di divorare

E di vivere da maiale

Senza mai saziare il ventre

Senza un momento di pentimento

E se ho vissuto col muso per terra

Senza vedere girare le stelle

Pure lo stesso non voglio morire

E schiamo forte per non crepare

Ma se è destino morire scannati

Voglio pure farvi beati

E che non si butti via niente

Di una vita in sacrificio per voi

Di una vita in sacrificio per voi

Il maiale fa testamento sulla pella-a-ccia

A chi col coltellaccio gli ha dato la ca-a-ccia

Tu che mai vedesti il sole, con la tua fa-a-ccia

La tua vita di peccatore

È alla fine delle sue ore

Porco mio è arrivata l’ora

E adesso ti scanno per la coda

Finché sei vivo ti chiami maiale

Ma quando sei morto ti chiamano porco

Il testamento del maiale

Lascia a tutti in parti uguali

Il testamento del porco

 

E qui probabilmente ci avviciniamo alla fonte, alla testa dell’acqua, alla sorgente ( o risorgente, vai a sapere…)

 

Esiste infatti un testo di Anonimo del IV secolo, che veniva raccontato per divertire, ed era evidentemente tanto famoso che Erasmo da Rotterdam ci tiene ad assicurarci che persino San Girolamo, quello della Vulgata, quello rappresentato immancabilmente col teschio sul tavolo e corpo emaciato dalla immane fatica della versione in latino della Bibbia, persino quel San Girolamo lo cita.

Io non saprei se vero, mi limito a fare come San Girolamo, riportando qui il testo:

 

TESTAMENTO DEL PORCELLINO

 

Incomincia il testamento del porcellino. Il porcellino Marco Grunnio Corocotta ha fatto testamento. “Poiché non ho potuto scriverlo di mio pugno, l’ho dettato perché fosse scritto”. Il cuoco Magiro ha detto: «Vieni qui, sovvertitore della casa, sconvolgitore dell’aia, porcellino che sempre fuggì, oggi ti tolgo la vita». Il porcello Corocotta disse: «Se ho fatto qualcosa, se ho rotto con i piedi qualche vasetto, ti prego, signor cuoco, ti chiedo la vita, concedila a me che ti prego». Il cuoco Magiro chiamò: «Vieni, garzone, portami un coltello dalla cucina, affinchè io possa sgozzare questo porcello». Questo viene catturato dai servi, condotto verso il sedicesimo giorno prima delle Calende lucernine (verso la metà di novembre), quando abbondano i cavoli, sotto il consolato di Clibanato e Piperato. E non appena capì che stava per morire, chiese un’ora di tempo e pregò il cuoco di poter fare testamento: fece chiamare a sé i suoi parenti, per lasciare a loro in eredità le sue parti da mangiare. E così egli disse: «A mio padre Verrino dispongo siano lasciati trenta moggi di ghiande e a mia madre Veturina Scrofa quaranta moggi di fior di farina spartana, a mia sorella Quirina, alle cui nozze non ho potuto partecipare, trenta moggi d’orzo. E delle mie viscere donerò le setole ai calzolai, le mascelle ai litiganti, le orecchie ai sordi, la lingua agli avvocati e ai parolai, le budella ai salsicciai, le cosce ai rosticceri, i rognoni alle donne, la vescica ai bambini, i garretti agli schiavi cursori e ai cacciatori, le unghie ai ladroni e al cuoco innominabile lascio il mestello e il pestello che avevo rubato: da Tebeste fino a Trieste possa egli legarsi il collo (impiccarsi) con una fune. E voglio che sul mio monumento sia scritto: «II porcello M. Grunnio Corocotta visse 999 anni e mezzo; se ne avesse vissuto ancora mezzo, avrebbe compiuto mille anni». Miei ottimi estimatori e voi che vi prendete cura di me, vi chiedo di fare buone cose con il mio corpo, che condiate bene con buoni condimenti di noce, pepe e miele, affinchè il mio nome sia ricordato in eterno. Signori miei e miei cugini, che avete assistito al mio testamento, fate firmare». Firmarono: Lardoso, Braciolino, Speziale, Salsicciotto, Prosciutto, Celsino e Nuziale. Finisce qui il testamento del porcello verso il giorno sedicesimo delle Calende lucernine, felicemente sotto i consoli Clibanato e Piperato