Schizofrenia di un azzardo

LA ROULOTTE DI SPARAFUCILE E LA GIOSTRA DI PAPÀ RIGOLETTO
LO STOCCO STORICO E IL MITRA MANCATO DELLA MODERNITÀ

Ci hanno insegnato a non dimostrare stupore nemmeno di fronte al più stupendo fenomeno. Sarebbe gesto da minus habens, specialmente quando ci si trovi ad assistere a qualcosa che spacca ogni forma d’improbabile collocazione. Non lasciarsi dominare dall’emozione. Ed è importante specialmente nei momenti di alto pecoreccio o bisonti in carica. Quindi non solo perché a lavar la testa agli asini si perde tempo e sapone, ma perché c’è comunque una dignità da mantenere degna della più diplomatica ipocrisia. Lo dico aggiungendo che in occasione della rappresentazione del Rigoletto nell’antico e prestigioso Teatro dell’Opera di Roma, oltre a una legione di spettatori illustri c’è stata la gratificante presenza del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, al quale sarebbe stata ineducata oltre che maldestra iniziativa chiedere quale dei picchi schizofrenici, rispetto alla storica e originale edizione della celebre opera, lo aveva allietato o indignato.
Eppure bisogna ammettere che è andata. In altri momenti poteva risolversi in adeguamento ai meriti e al fatto. Ma non auspichiamo vento sul mare. Siamo solo in chiave di cronisti di provincia a dire la nostra, nello stesso clima di libertà che un regista possa vantare incolumità fisica e salvezza giudiziaria per non luogo a procedere. In fondo il Rigoletto schizofrenico del 16 luglio altro non ha proposto che un libretto in chiave moderna, un “aggiornamento” con sputo in faccia al significato di storia di un’opera classica, che in quanto classica appartiene alla storia in tutto e per tutto, da “una stoccata e muor” che non è una fucilata, evidentemente suggerita all’ottimo regista dal nome “Sparafucile”. E sotto la suggestione dello sparo e del fucile il generoso innovatore ha padellato l’occasione di far tirare fuori dal barbuto figuro borgognone, un mitra, arma ultimo grido per “un uom che libera”. Infatti gli ha messo in mano un superatissimo modello 91 della Prima guerra mondiale, una topica eccellente per un “ammodernatore” Ma sono quisquilie formali del genere che s’addice al de minimis non curat praetor. Un ammodernamento quello del Rigoletto schizofrenico che se fosse stato vivo Meo del Cacchio avremmo avuto qualche interiezione da spendere in omaggio alla complessità schizofrenica della rappresentazione del 16 luglio. Né un etneo Pippo Pernacchia in trasferta a Roma avrebbe ritenuto degno d’un momento della sua singolare arte quel trambusto da baraccone suburbano tra la caravan dei germani Sparafucile la giostra di papà Rigoletto e un pass’e spassa di donnette ingiarrettierate in cerca di marciapiedi immaginari.
Qualcosa, comunque, è mancata. Questo bisognerà ammetterlo; nessuno degli annunciatori, o lo stesso impeccabile regista ha spiegato cosa significa ammodernare, consegnare al dazio della contemporaneità un’opera classica e la sua dignità storica imprescindibile, inviolabile per chiunque, dandone, non si dice giustificazione – il che sarebbe impossibile – ma straccio profumato di spiegazione nella dovuta chiave della intenzione di rendere attuale un capolavoro stantio. Noi un suggerimento glielo diamo, questo: ripetendo (malauguratamente) l’azzardo, che ci sia un commentatore d’alti stivali che spieghi il Rigoletto schizofrenico del 16 luglio con l’esempio di potere ambientare i Promessi Sposi del Manzoni tra Enna e il lago di Pergusa e per maschera nominale dei due bravi che avvelenano l’umore d’un don Abbondio (maschera di facile disponibilità), imporre i moderni e non rimpianti personaggi di Riina e Provenzano. Gli spettatori infatti vanno illuminati, altrimenti finiscono per applaudire più per un omaggio alla presenza del presidente della Repubblica e all’inno nazionale, che all’oltraggio al significato di classicità e quindi di quanto d’inviolabile è custodito dalla storia e non affidato alle alzate d’ingegno mal riposte, e altrettanto oltraggiosamente mal proposte con la rappresentazione di un Rigoletto in chiave schizofrenica.
La presenza di auto, roulottes e di una polivalente stazione di giostra ha procurato un’aura tra States e Sud degli States d’oltre Oceano allo spettacolo e alla musica di Verdi. Musica che a quel punto poteva persino essere relegata all’optional. Lasciarla in assaggi e spizzichi è stata una concessione del regista che avendo realizzato il piano del moderno con tutto il parch’in caos di donnette in giarrettiere e altre allusività di marciapiedi, ha concesso che una parvenza d’aura classico-stantia aleggiasse innocua a confronto con l’efficacia dello straripante schizofrenico.        Nessun fischio, nessuna contestazione, dal compostissimo pubblico, un pecoreccio d’alta sensibilità artistica (e politica, considerando il rispetto autentico dovuto alla presenza di Mattarella). E quand’anche… con i prezzi degli ortaggi e delle uova marce che fossero, ciascuno si sarebbe toccato il polso, prima di organizzare un salvifico segnale.

Mario Grasso