Giuseppina Sciortino è una siciliana trapiantata al Nord, lavora nel settore delle telecomunicazioni e scrive. Noi l’abbiamo conosciuta da una recensione a sorpresa apparsa sul blog letterario Zona di disagio a proposito della silloge poetica di Mario Grasso intitolata Vocabolario siciliano. Interessata alle nostre attività e alla rivista Lunarionuovo, ha pubblicato di recente proprio lì un racconto (“Santuario”) e ha partecipato alla monografia su Rosa Balistreri (Una rosa di venti, ed. Prova d’Autore). Con la casa editrice Eretica ha pubblicato il romanzo L’obiettore di coscienza e ha da poco aperto un blog personale dal titolo giocoso, Zurumpat!, in cui riversa scritture creative, riflessioni sul quotidiano individuale e collettivo, traduzioni, recensioni, e… quanto di ancora la sua mente partorirà, dal momento che si tratta di un progetto in itinere, ma da cui si percepisce già chi è Giuseppina Sciortino prima di tutto: una letterata. Con Prova d’Autore ha pubblicato un libro-intervista a Mario Grasso, intitolato Campanili siciliani, e recentissimamente sempre con Prova d’Autore ha pubblicato il romanzo Petali di rose, madonne e carciofi.

Il titolo prende il nome da un paesino fittizio dell’entroterra siciliano, dal nome di Madonna dei Carciofi, per via di una leggenda legata al luogo che narrava del ritrovamento a inizi del Seicento di una statuetta della madonna proprio sotto una pianta di carciofi. La ragazza cieca che vi si era imbattuta riacquistava la vista e da qui il miracolo e il nome. A distanza di secoli i carciofi vengono sostituiti con le rose, e già qui abbiamo la simbologia che segna l’intera storia narrata e la stessa filosofia che ne emerge. Pensiamo alla rosa, da un lato bella e profumata, dall’altro con il gambo pieno di spine pungenti. Una doppia faccia della rosa che è una doppia faccia della vita.

Quella che ci viene raccontata in questo romanzo è una storia di migrazione dal sud al nord Italia, che sfata i miti di un settentrione prospero e salvifico, dove invece troviamo equamente uomini violenti, vicini di casa omertosi, povertà, precarietà, ingiustizie, dove non necessariamente si trova quello che si cerca. Tuttavia, è anche una storia di rivincita, in un’atmosfera quasi di predestinazione, in cui ogni cosa accade quando deve accadere.

La protagonista è una ragazza di nome Maria che, dopo un’infanzia sventurata, segnata da povertà e lutti significativi, cerca di trovare il proprio posto nel mondo. Ha un progetto che a lungo non riesce a realizzare a causa della propria condizione di svantaggio economico, sociale, anche psicologico (se pensiamo alla percezione di sé che in tanti casi diventa fonte di auto-sabotaggio). Non sono solita dire molto della trama, sia perché in alcuni casi è esito di un’interpretazione, sia per non commettere spoiler, peccato capitale!

Parlerei invece degli elementi trasversali a cui ho fatto caso leggendo, come l’operazione generale che l’Autrice compie, andando a toccare il punto più basso del dolore e dell’alienazione, della mortificazione e della miseria, finché i pezzi scomposti, per volere del destino, ricompongono un mosaico che prima non potevamo immaginare ma che scopriamo essere quello inevitabile, in cui ogni cosa trova il proprio posto. Sembra quasi volerci dire che la vita, fuori dai film romantici, è fatta in realtà di piccole cose poco dignitose, ma che tutti potenzialmente possono essere felici.

C’è un intreccio continuo di relazioni che compongono una rete visibile solo alla fine, relazioni sbagliate, relazioni usurate, relazioni che giungono a un compimento o che restano incompiute, tutte con un ruolo ben preciso in funzione di un percorso di cui vedremo alla fine la meta.

Da un punto di vista tecnico, c’è una ammirevole capacità di rappresentare per immagini ciò che richiederebbe molte e molte parole per essere detto, quello che in ambito cinematografico viene chiamato “fotografia”. Dalla frequente sintonia tra la descrizione dei luoghi e gli stati d’animo o le personalità dei personaggi. Di recente una nostra socia, Anna La Rosa, insieme ad alcuni giovani colleghi tirocinanti, ha realizzato uno studio sugli ambienti domestici in molti film classici e contemporanei, a riprova di come la casa sia una proiezione di chi ci vive. In questo romanzo troviamo spesso questa corrispondenza.

Per restare ancora sul versante “fotografia”, pensiamo ai paesani che escono di casa dopo la pioggia come lumache sulle foglie, o la descrizione del paesino che potrebbe corrispondere a qualsiasi paesino periferico delle province siciliane, con le sue piazze e i suoi anziani seduti alle porte, mentre sono in corso i preparativi per la festa patronale. Pensiamo alla descrizione di scene in cui non viene aggiunto nessun commento psicologico, ma che emerge palese da un movimento o da un’inquadratura, o da indizi collocati apparentemente a caso, come le cravatte degli impiegati paragonate a protesi falliche.

La narrazione è asciutta, priva di orpelli, usa le parole in modo sapiente. L’incipit crea un’atmosfera quasi fiabesca, di una Sicilia comunque lontana dai cliché che si trovano in giro fatti di ammazzatine e buona cucina. Il focus si sposta dal contesto privato a quello pubblico, per ritornare al privato con in tasca una nuova contestualizzazione che ci dice qualcosa in più. Riesce ad adottare una narrazione corale, assumendo di volta in volta la focalizzazione del personaggio del momento, sfociando a volte nel flusso di coscienza. Ogni scena (così come ogni personaggio) è un filo che corre parallelo agli altri e che a un certo punto vi si congiunge. Immagino Giuseppina come una Parca che tiene in mano questi fili e decide quando intrecciarli.

Mi avvio alla conclusione dicendo che potremmo considerare questo romanzo come un mezzo esordio letterario, perché, se è stato il più recente a essere pubblicato, è stato però il primo a essere scritto! A maggior ragione, possiamo complimentarci per il risultato e augurare a Giuseppina Sciortino una buona fortuna per il suo percorso di scrittrice.

Giulia Letizia Sottile