A volte la frequentazione delle arti (da quelle figurative alla scrittura) non sono solo pratica professionale o momento di evasione o di autoespressione, a volte si fanno canale preferenziale attraverso cui percorrere un proprio cammino di ricerca. Ciò che tutti noi desideriamo sono le risposte alle nostre domande, e ognuno le cerca in un luogo diverso, servendosi di strumenti diversi. Qualcuno sceglie le parole, che, sebbene a volte ci allontanino dalla meta, altre volte ce la svelano, nel loro imporre ordine, organizzazione, nel loro farsi anelli di una catena, talvolta con un insight. Le parole ci mettono in relazione con ciò che sta sia fuori che dentro di noi, instaurano una dialettica, impongono un codice condiviso e al contempo possono deragliare dai dictat rimodellando la realtà, realizzando nelle loro infinite combinazioni tutti i mondi possibili. Per essere, infine, strumento che consente la condivisione di questi stessi mondi.

Se scrivere poesie, per Tomaso Kemeny, è “spezzare il caldo pane dei sogni, lanciare la mollica a gabbiani apparsi sulla segreta riva” e vederli poi angeli a “destare la terra alla nuova melodia”[1], la scrittura, poetica e non, può essere paragonata anche a un frisbee. Il frisbee parte, si muove circolarmente e torna indietro (sotto il vento di condivisione, comunione, riconoscenza?), più o meno come fa un chakra, mettendo in connessione tra loro tutti gli elementi di un sistema (che sia esso il corpo umano, un discorso o una comunità). Frisbee sono le narrazioni di Giulia Niccolai nel suo nuovo libro “Favole & Frisbees”.

L’Autrice si serve di questa metafora sin dagli anni ’80 per continuare a ripescarla quale felice sintesi di una nuova fase della propria vita e del proprio modo di pensare alla scrittura. (Questo libro è – fin ora – l’ultimo di una serie che racconta il proprio cammino spirituale nel Buddhismo Mahayano Tibetano).

Al genere autobiografico ci si avvicina solitamente spinti da un doppio movente fatto di lotta contro il decadimento e desiderio dell’Altro: si cerca quanto prima di portare in salvo tutto ciò che dei propri trascorsi si può fissare e, al contempo, lo si destina ai posteri, che siano i propri cari o perfetti sconosciuti. Il genere autobiografico invia dunque un doppio sguardo al passato e al futuro, talvolta con tinte personalistiche, tal altra sociali e civiche. Un poeta però parla di sé anche in un gesto e non credo si troverebbe a proprio agio nella formula autobiografica classica. A ciò si aggiunge che Giulia Niccolai, oltre a essere poeta, ha un approccio alla scrittura difficilmente categorizzabile e non intende di certo eternare la propria vita in quanto tale. Su ciò potrà influire il buddismo, che fa parte della sua quotidianità, ma alla base risiede la personalità. Così in “Favole & Frisbees” troviamo brevissimi e fulminei spaccati esistenziali dove i protagonisti non sono gli eventi ma le emozioni, le idee, le riflessioni, le scoperte che poggiano soltanto sugli episodi (o, meglio, su frammenti di essi) come il mondo sulla leva di Archimede. Aneddoti come frisbee che partono per sparpagliarsi tra altre persone o che da esse provengono prima di raggiungere la particolare sensibilità della Niccolai, che li rimpasta per farli nuovamente partire, in una circolarità che crea, mantiene e rinsalda relazioni, fine ultimo di ogni aneddoto.

Anche se è possibile affermare che il tema di fondo sia la consapevolezza, questa è comunque relativa a una connessione. Qualche volta Giulia la chiama “interdipendenza”. La si tocca con mano, in una grande emozione, quando sembra che all’improvviso una porta si spalanchi di fronte a noi, a permettere l’incontro con qualcosa che attendeva da tempo di essere trovata. Non a caso ci informa, in un frisbee, che l’ideogramma cinese di “parola” è un quadrato grande contenente un quadrato più piccolo, rispettivamente rappresentanti una porta e una bocca.

Favole & Frisbees” si accosta anche al genere aforistico, per la brevità degli aneddoti e per l’incisività dei messaggi. Sebbene, infatti, l’obiettivo non sia quello di lanciare una morale, questa raccolta ne contiene molte, alcune palesi, altre nascoste. Più che di aneddoti si potrebbe allora parlare di parabole, che svelano un significato profondo e lo fanno con una vividezza di immagini più potente di qualsiasi sermone. Sono anch’esse una forma di meditazione.

Sono favole mistiche: il discorso mistico trasforma il dettaglio in mito, scrive l’Autrice riproponendo le parole di De Carteau; chi procede su un cammino spirituale ha la sensazione che ogni dettaglio del proprio quotidiano non si esaurisca nella propria apparente banalità, ma è profondamente collegato con tutto ciò che lo circonda nello spazio e nel tempo. Da questo punto di vista, Giulia Niccolai è una mistica. Le sue favole e i frisbee sono testimonianza della bellezza insita nel fare esperienza di cose come epifania e sincronicità.

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Nella lettura si ha la sensazione che una delle parole chiave sia “empatia”. È l’empatia che apre le porte alla consapevolezza (altra parole chiave), all’esperienza dell’interconnessione tra le cose e dunque, infine, ciò che lei dichiara di voler raccontare: epifanie e sincronie. Le prime: improvvise manifestazioni di realtà rivelatrici (insight?); le seconde: quelle che i più scettici (trascurando come il concetto di sistema sia trasversale a tutte le scienze) chiamerebbero coincidenze. Ogni cosa, lungi dall’accadere per caso, giungerebbe nel luogo e nel momento più funzionale alla sua recezione. E col solo scopo della sua recezione (facendo slittare in secondo piano premesse e conseguenze). Un pensiero può non appartenerci, o comunque può non nascere dentro di noi bensì giungerci da qualcun altro che lo aveva pensato per primo. Questo accade quando non si è troppo distratti, quando ogni poro di sé è aperto a ciò che ci sta attorno, quando si empatizza persino con la natura, con le piccole cose, come con un usignolo. Ci si accorge di essere un tassello del puzzle, di essere collegati col resto di cui si scorgono le interconnessioni. Se la parte difficile, più che scrivere poesie, è viverle – diceva Bukowski – è proprio questo che fa Giulia, racconta le poesie che ha vissuto, spingendosi oltre lo stesso Bukowski nell’identificare la poesia con lo stesso vissuto, quell’attimo in cui il confine tra sé e altro diviene fluido.

Uno dei campi in cui l’empatia è assoluta protagonista nell’offrire occasioni è quello delle arti figurative. L’arte è canale privilegiato in cui incontrare epifanie e ricavarne esperienze estatiche. Da frequentatrice di opere delle più diverse correnti, la sua sensibilità viene raggiunta da Braque, Pollock, Hopper, Vermeer, Velàzquez. L’arte è tempio di spiritualità, dove è possibile cogliere emozioni e intenzioni nascoste, vissuti, pensieri, dove soggetto e oggetto, vedente e visto si fondono. E ciò può accadere anche nella musica, come durante un concerto di Bach, che lascia la poetessa colma di un senso di gratitudine persino terapeutico.

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In “Favole & Frisbees”, momenti di riflessione si dispiegano sulla pagina a vagliare ogni dettaglio del ragionamento o ogni sfumatura dei sentimenti, e si alternano a momenti di divertimento, a venature umoristiche rivelatrici spesso della saggezza di chi scrive. Fa sorridere il racconto di un sogno in cui la Niccolai si vede camminare per strada in mutande e, per coprire i seni, li infila dentro un paio di occhiali da sole Rayban. Divertono la parodia sulle pubblicità dei profumi, il telefonino che non si trova e poi lo si sente squillare da dentro la bocca del cane, le improbabili traduzioni dall’inglese.

I racconti procedono spesso per associazioni, come per assecondare il proprio intuito che dirotta su temi che finiscono per scoprirsi interconnessi, e tornano ogni volta con qualcosa di nuovo, di più vicino alla verità, per serendipità. Quest’ultima, nelle favole, è la forma con cui più spesso si arriva alla costruzione della realtà, sempre più ricca, sempre più appagante. Riflessioni o eventi legati a un concetto richiamano alla mente qualcosa che finalmente e solo alla luce di quel nuovo episodio può spiegarsi. Questo a sua volta richiama un altro concetto, che diverrà più chiaro. È un procedimento simile al flusso di coscienza. Un esempio lo troviamo nel percorso che parte dalla grafica pubblicitaria dei treni “italo” passando per quella del balsamo di tigre, per “Tiger” di Blake fino al tigre al maschile. Altro esempio parte dall’esclamazione dinnanzi a un quadro di Braque alla Guggenheim di Venezia, la stessa pronunciata d’istinto anni dopo al Moma di New York dinnanzi a un Pollock, frequentatore del salotto di Peggy Guggenheim. Rivelatore è l’insight a cui si giunge attraverso la scrittura, che spiega le ragioni di un’immagine visualizzata durante una meditazione: il faraone Ramsete II nella posizione del loto. In una felice sintesi, bypassando il ragionamento, la mente voleva dire come il cobra rientrasse nella simbologia comune alle due culture, quella indù (in cui rappresenta Kundalini, estensione della spina dorsale e dunque del sistema nervoso, presente nelle raffigurazioni del Buddha) e quella egizia (che vede i faraoni rappresentati con una corona che termina nella testa di un serpente, espressione di saggezza).

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Con scorrevolezza, linguaggio colloquiale e spesso servendosi di frasi nominali, come una cabarettista o come a un amico davanti un caffè, Giulia Niccolai è capace di parlare di temi affascinanti e complessi. Il suo bilinguismo (italo-americano) talvolta si svela nelle costruzioni delle frasi (“Io avevo abitato a Roma per 5 anni”), accompagnato da una flessibilità linguistica tale da renderle naturale il conio di neologismi come “usignolizzarsi”, “tigrità”, “frisbeesta”, “frisbeezzare”.

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Alla gratitudine che la poetessa sente verso le piccole cose della vita si unisce quella verso il suo primo Maestro, Giorgio Manganelli, a cui resta legata da un affetto intatto, gratitudine che tutt’oggi si rinnova, anche nelle pagine di questo libro in cui il suo fantasma buono compare come spirito nelle risignificazioni dell’esperienza.

E poi ci sorprende un frisbee che probabilmente per l’Autrice non voleva essere poesia (stando anche alla personale concezione che di essa lei ha) ma che tale a me appare:

“Come la penso la mia città?/ Come la vedo?/ Come me la sento?/ A che velocità mi ci muovo dentro/ col pensiero?/ Mi è nota, molto nota/ ma noia per fortuna poca, non c’è monotonia./ Può risultare anche sorprendente,/ protettiva e solo un po’ scostante,/ snob e compiaciuta, povera e scalcagnata,/ ma a tratti addirittura epica e grandiosa/ per brevi attimi felici – come avvolta e sublimata/ da una sinfonia – quando il sole basso/ della sera illumina solo le cime alte delle case/ sotto un cielo terso di primavera. E io,/ passeggera di un mezzo, scivolo tra i pieni/ e i vuoti delle costruzioni e dal finestrino ne vaglio/ – con sempre rinnovata meraviglia – ogni fregio/ del passato, annotando ogni dettaglio/ per una mia personale partitura”.

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Il fatto che la lettura di questo libro permetta di apprendere molte cose si aggiunge alla possibilità di compartecipare senza difficoltà a un percorso verso il benessere, esitando nella gratitudine dello stesso lettore.

Giulia Sottile

[1] TK, Il pane dei sogni, in: PanePoesia (2015, ed. New Press).