Un po’ per gioco nasce il nuovo libro di Gabriella Calì, “Toby e i suoi amici” (Prova d’Autore), inaugurando uno spazio che l’Autrice si ritaglia nel mondo dei giovanissimi lettori. Di lei conosciamo la silloge di racconti “Il dono” e i romanzi “La ragazza della foto” e “Sette storie per 7 giorni”, che ha consolidato ancor di più l’impronta stilistica ed epistemica della scrittrice acese. Così sorprende il sopraggiungere di un’opera tutta per i più piccoli, ludica nel suo intento ma inevitabilmente pedagogica se solo si pensa quanto ancora poco l’uomo comprende del mondo animale. Ed è infatti questo il vero protagonista delle cinque “Storie agrodolci”, nate per gioco – come dicevamo – a partire da due personaggi realmente esistenti: nonno Anto e il cane Toby, «un Jack Russel dal mantello bianco con chiazze color miele». A questi la creatività dell’Autrice ha aggiunto, collocandoli in una fattoria, un pony, una mucca, una pecora, un gallo e le galline, anatre, gatti e maiali. Si parte dal privilegiato Toby che, fedele al suo padrone, il nonno Anto, cerca di tenere in riga tutti gli altri, mobilitandosi personalmente per la risoluzione dei problemi, come nel caso dell’«infame ladro della pagnottella». Sa sempre tutto prima degli altri e diffonde le notizie fungendo da tempestivo messaggero. Ad una attenta lettura, dai racconti emergono molti temi, come il legame di affetto tra l’uomo e il suo cane come fosse un figlio e terribile è l’apprensione per la sua scomparsa. Emerge l’incondizionata fiducia che l’animale dà all’uomo, che non sempre la merita, a cui si chiede in fondo solo accudimento e affetto.
Protagonista è la Natura, in cui l’uomo può aggirarsi in punta di piedi o irrompere con strepitio, nell’alternarsi delle stagioni, nella ciclicità di una ragione che oggi, da cittadini quali siamo, ci sfugge sempre più, ma che è invece vicina, nelle campagne e non solo, a chi vi si adatta a rendere ciclico il proprio lavoro. Tuttavia anche nel proprio piccolo, ognuno deve dar ragione a nonno Anto e ammettere che in campagna c’è sempre qualcosa da fare. Così forte diviene il legame con la terra, con le materie prime, con la primordialità. Tutto questo passa per le vie olfattive, ad esempio, attraverso il profumo del pane nel forno, quello delle caldarroste o dell’olio fresco nei tini, ma anche dai sapori, dai colori, dalle tradizioni locali, come quella della cotognata nelle formine o della cuddura (l’aceddu cu l’ovu). E a proposito di tradizioni locali, Gabriella Calì dà spazio alla festa di Sant’Antonio Abate, il protettore degli animali domestici, «raffigurato accanto ad un maiale con al collo una campanella (…) il grasso di questi animali veniva usato per ungere gli ammalati colpiti dal fuoco di sant’Antonio» e a loro era consentito girare liberi per il paese.
Semplicità nelle vicende e nel linguaggio stesso, nei dialoghi da cui emerge un “sentire” spoglio di tutti i meccanismi che complicano le relazioni umane, riducendo all’essenza i pilastri dei legami come anche la percezione della vita. Semplice è il rapporto tra le generazioni e tra ognuno e il proprio presente in continuo divenire.
Non si può dire che le storie agrodolci rientrino nel genere favolistico. I protagonisti sono gli animali, ma non sono antropomorfizzati né alludono a faccende e conflitti prettamente umani, non c’è traccia di allegoria. Ed è proprio questo il punto. Il focus è palesemente l’animale con l’obiettivo di valorizzare proprio il suo mondo, fuggendo l’atteggiamento strumentalizzante che permea grandi fette di civiltà moderna.
Le prime tracce della relazione uomo-animale risalgono al Mesolitico, 10-14.000 anni fa, e da allora le trasformazioni qui sono state molte. Si è andati da una valenza magico-totemica (es. il gatto in Egitto), passando per l’antropocentrismo del cristianesimo e poi per la visione funzionale al servizio delle esigenze umane (es. la caccia per le pelli o le corna ai fini ornamentali, lana, guerra, trasporti, guardia alle proprietà, giochi circensi), sino alle più recenti ri-scoperte della capacità di donare affetto, dei benefici psicosociali e delle caratteristiche intrinseche a una relazione che è peculiare. Il rapporto uomo-animale non sarà mai come quello tra gli uomini, perché il primo è regolato da un’inevitabile sincerità, risultando di second’ordine il linguaggio verbale. Ma abbiamo dovuto aspettare la seconda metà del secolo scorso per accorgercene, e ancora spesso si fatica ad accettarlo. Eppure Darwin già due secoli fa aveva inferto la seconda ferita narcisistica al genere umano, dopo quella della teoria eliocentrica, (e Lorenz confermò con la sottrazione di monopoli affettivi).
Tuttavia i capannoni dei circhi ospitano ancora le esibizioni di animali la cui natura presupporrebbe tutt’altra attività e ci si addormenta dietro le sbarre accompagnando il cibo con oppiacei. Così non sempre i “pellicciotti” alle maniche dei cappotti sono ecologici e i controlli negli allevamenti rispondono a criteri commerciali, e si assiste all’ancora presente, e autorizzata, “caccia sportiva” che di sportivo ha in realtà ben poco, ma l’appellativo ammorbidisce la natura dell’operazione. E ci vengono in mente, a proposito di narcisismi, gli episodi relativamente recenti che hanno acceso il dibattito internazionale: il caso del leone Cecil, nello Zimbambwe, ucciso da un dentista americano, e quello del safari in Tanzania, il cui esecutore fu un veterinario italiano.
Ma non è necessario giungere a questi estremismi per rintracciare gli indizi dell’atteggiamento umano dinnanzi al mondo animale, dimentico, tra l’altro, di farne parte. Gabriella Calì non ci parla della caccia – tra l’altro la prospettiva è sempre quella dei protagonisti che si pongono sui comportamenti dell’uomo domande che restano senza risposta o si accontentano di ingenue congetture – ci racconta della commovente storia della pecora Albina, che un tempo faceva parte di un gregge. Una delle compagne portava il nome di “Svelta Tu”. Chissà perché?! E ogni tanto gli agnellini maschi sparivano.
Nell’intreccio delle storie passate e presenti di ogni abitante della fattoria compaiono le peculiarità di ogni specie, tra l’istinto e l’adattamento – come quello che permette la convivenza di cani e gatti – e poi la dedizione del nonno, nel rispetto dei diritti e doveri che ogni animale possiede, che collimano nella conclusiva riproposizione, da parte di Gabriella Calì, della Dichiarazione universale dei diritti dell’animale, proclamata nel 1978 dall’UNESCO, che ognuno di noi dovrebbe conoscere sin dalla più tenera età, per imparare a vivere il mondo e nel mondo senza distruggerlo.
Giulia Sottile