Si dice, in antitesi al detto mai lasciarsi ingannare dalle apparenze, che in realtà sarebbe proprio la prima impressione (la forza della chimica? gli script preconsci? l’inconscio collettivo?) a darci informazioni preziose, da tenere a mente quando, a distanza di tempo, le troviamo confermate (a volte disastrosamente, per averle sottovalutate).

Era forse questo principio che faceva dire ad Oscar Wilde “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”?

A questo punto, però, sorge una complessità: e se la nostra vista fosse compromessa da qualche forma di miopia?

È ciò che accade a Napoleone Bonaparte Froissart (che a un certo punto diventa Simpson), protagonista diThe Spectacles” (Gli Occhiali), insolito racconto di Edgar Allan Poe, pubblicato nel 1844 sul Philadelphia Dollar Newspaper[1].

Insolito se si pensa che lo scrittore di Boston è oggi per lo più conosciuto nella cultura di massa come un classico della letteratura horror (la sua produzione è stata definita gotica e sul filone del romanticismo dark), insieme a Mary Shalley, Stoker, Lovecraft, e altri; e che il suo personaggio è da sempre avvolto in un’aura cupa, stando sempre naturalmente all’immaginario collettivo.

Negli anni ’30 e ’40 (dell’Ottocento), tuttavia, Allan Poe (ed è bello che il cognome della famiglia adottiva abbia sempre preceduto quello del padre biologico ma abbandonico) dà prova di spiccato humor e si avvicina alla satire e alla fantascienza. Napoleone Bonaparte Simpson sembra quasi un Pulcinella che finisce per diventare zimbello, ma nemmeno molto distante dall’uomo medio, comune, un Fantozzi che non si accorge della risonanza collettiva dei propri difetti (in questo caso al singolare) nella perseverante convinzione che, fingendone l’assenza, non si vedano né creino rilevanti conseguenze.

Simpson ha una forte miopia ma, essendo un uomo di bell’aspetto e “ammiratore del bel sesso”, si rifiuta di portare gli occhiali, che lo invecchierebbero. Gli accade, un giorno a teatro, a New York, di invaghirsi, a prima “vista”, di una ricchissima vedova seduta su un palco privato. Da lì in poi, la sequenza di equivoci, l’uno dopo l’altro, è un climax ascendente sino all’exploit che ha dell’esilarante.

Il bonario complotto procede in parallelo a una scoperta sensazionale per i protagonisti, per cui la vicenda si conclude felicemente per tutti, con l’aggiunta di un proposito che sa di conquista esistenziale: “D’ora innanzi nessuno più mi vedrà senza OCCHIALI”.

E se l’Autore (ma qui è lecito e doveroso parlare di scrittore) avesse voluto, come suo solito, anche in questo caso, andare oltre la lettera del testo?

Certamente la metafora degli occhiali è stata sempre molto frequentata senza che passasse mai di moda e si presta ancora, per segnalare ogni tipo di filtro tra la nostra mente e il mondo, che ci trae in inganno, fa passare le informazioni in modo parziale e mistificato, finendo per rivolgersi contro noi stessi. Eppure gli occhiali sono anche le chiavi di lettura offerte dall’educazione, dalla cultura, dall’informazione, che forniscono le coordinate per orientarsi in un mondo sempre più complesso. Quando studiamo, a volte, abbiamo bisogno di disegnare mappe mentali, ma innanzitutto dobbiamo conoscere il linguaggio.

Non sempre nella vita di tutti i giorni c’è un “amico” che ci guarda le spalle e il rischio è di essere presi in giro dal primo che passa e scopre i nostri punti deboli, come la miopia.

Occorre che ciascuno di noi riconosca i propri limiti e si fornisca di strumenti compensatori, come un paio di occhiali. E che le lenti siano quelle giuste!

Un ottico di fiducia? Noi consigliamo la lettura.

Giulia Sottile

[1] Noi lo abbiamo tratto dalla prima edizione italiana (Rizzoli, 1957) della raccolta intitolata “Racconti dell’impossibile”, che raduna i racconti che, per genere e stile, si discostano dal filone gotico-orrifico e sfociano nello sperimentalismo satirico.