L’etnia non è la razza

 

Sono solita non pronunciarmi su questioni sociali che infervoriscono l’opinione pubblica, specialmente se si tratta di temi cari alla speculazione politica. Immagino sfilze di opinionisti che tra i competenti raccolgono una gran quantità di improvvisatori che amano trucco e riflettori, e poco lo studio. Che risonanza avrà mai l’ennesima voce in capitolo che si alza da un angolo di periferia!? Ci sono volte in cui la risposta a questa domanda retorica mi lascia indifferente, e accetto il rischio di parlarmi addosso.

Di recente è scoppiata, tra le tante che animano la vita politica o pseudo-tale di questo Paese, la bomba della razza. A un Trump d’oltreoceano fedele difensore degli ideali del Ku Klux Klan preoccupato di re-imbiancare l’America, fa eco la dichiarazione del candidato lombardo della Lega (Nord) Attilio Fontana,che dice su Radio Padania «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o se devono essere cancellate». È stato definito “lapsus” (sempre che, ammesso ciò sia vero, non si consideri che il lapsus – per chi viene da Marte – è l’emergere di qualcosa che è presente a un livello sotterraneo e preme per avere la sua parte sulla ribalta); bisognerà poi vedere il lapsus della razza in quale giro di associazioni mentali era contestualizzato, ma a noi poco interessa.

Rispetto alle idee che una certa fetta di popolazione ha sul genere umano, preoccupa di più quanto emerge dai dibattiti di chi dovrebbe saperne più di noi. Direi di sorvolare incuranti su frasi come “la razza bianca esiste e la prova è il fatto che nella Costituzione si parla di uguaglianza di razze!”, frase come un rigurgito da indigestione pronunciata da chi, in preda all’enfasi retorica, non ha considerato che la Costituzione è un insieme (seppur nobile) di principi negoziati e convenzionali che si ispirano a una cultura e a una linea di pensiero, espressi attraverso un linguaggio che per statuto non può essere esente da influenze culturali e quindi assolutamente il linguaggio va storicizzato in un’epoca in cui la parola “negro” non aveva ancora acquisito la accezione dispregiativa che oggi un po’ tutti siamo concordi nel dare; il linguaggio stesso è frutto di convenzioni. E fingiamo pure di non sapere che all’epoca della Costituzione gli studi in materia non avevano raggiunto certi esiti e che nessuno ha mai nemmeno pensato che essa potesse rappresentare un reperto archeologico o una prova scientifica. Per quanto grande sia stato Jonathan Swift, Gulliver esisteva solo nell’immaginario fantastico di una produzione letteraria (oltre che nella stanza della mente riservata all’ego di qualcuno).

E quindi passiamo avanti senza nemmeno cercare di ricordare il nome del tizio che a un tratto ha esordito col discorso sulla “prova”. Molto più delle dichiarazioni di un politicante, come d’altronde lo stesso Fontana è, ci interessano le affermazioni degli uomini di cultura (che oggi sempre meno coincidono con i politici) che, fregiandosi delli loro relazioni dirette con l’Accademia della Crusca e altre istituzioni certamente attendibili, sostiene che il termine “razza” (giustamente desueto nella misura in cui ha incorso nella stessa storia evolutiva di “negro”) possa essere forse e probabilmente sostituito solo dalla dicitura “provenienza geografica” dal momento che pure “etnia” sarebbe errato perché pregiudizievole e xenofobo.

Ora: io non metto in dubbio la preparazione e la rispettabilità del professore promotore di questa chiave interpretativa; non vorrei, tuttavia, che, sovrastimando la salienza di certe caratteristiche semantiche di un significante e sottostimandone altre, si incorra nella paranoia. Un po’ come nella nevrosi della declinazione femminile delle professioni che bocciava avvocato, sindaco e così via quando ci si riferiva a una donna. Un pediatra, qualche tempo fa, ha preso l’iniziativa di rispondere al dibattito interno anche alla propria categoria professionale con un satirico gesto plateale, facendo sostituire la targa fuori dal proprio studio di pediatra con un’altra che portasse la scritta… “pediatro”. Anche lui rivendicava la parità linguistica dei sessi. E che dirà il maschio della tigre, la femmina del cane, che si vede battezzata con cagna a cui attribuiamo sicuramente oggi accezione negativa? Certamente le parole sono importanti, secondo alcuni filoni di studio è da esse che si genera non solo il particolare filtro attraverso il quale leggiamo il mondo, ma anche il pensiero stesso (in accordo col vygotskijano processo di interiorizzazione). Tuttavia, concordi nel ritenere che determinate parole (che oggi non hanno altra accezione all’infuori di quella pregiudizievole) vanno certamente abolite perché va abolito il loro significato, stiamo attenti a non diventare paranoici.

Etnia viene dal greco “èthnos” e significa “popolo”, “nazione”, “gente”, ovvero moltitudine unita per l’abitudine del convivere e accomunata da caratteri linguistici e culturali.

Sarebbe ipocrita e inesatto non riconoscere che, accanto alle molte somiglianze tra gruppi di varie “provenienze geografiche” (per citare la proposta dell’egregio professore di cui sopra), vi siano anche differenze, lì dove differenza non comporta alcun rapporto di complementarietà in cui c’è chi prevale e chi soccombe. Le dinamiche di potere sono frutto di fattori sociali, politici ed economici presente in una determinata società e non hanno alcun rapporto diretto né geneticamente legittimato con l’identità nazionale di un gruppo di persone. Essere diversi, in un’ottica di sospensione del giudizio, significa inscriversi in una dinamica relazionale in cui ognuno conserva la propria soggettività e riconosce quella dell’altro, scevro dal voler narcisisticamente colonizzargli anche il pensiero. Si incorrerebbe (e infatti si incorre) nell’etnocentrismo, che è poi quell’atteggiamento largamente diffuso nel nostro Paese e non riconosciuto (tanto che crediamo di parlare di integrazione come modalità di inserimento delle minoranze etniche nel nostro tessuto geografico e sociale senza renderci conto che in realtà stiamo parlando di un altro tipo di relazione intergruppale, che è l’assimilazione: a proposito di parole, diamo alle cose il proprio nome).

Diversità etnica non equivale a diversità nei diritti e nei doveri, né diversità sul piano della vita affettiva, professionale e quant’altro. Definire me stessa donna non mi suscita sensi di inferiorità dinnanzi a un uomo (quando la donna viene discriminata non è per il suo essere donna ma per ciò che chi discrimina crede significhi essere donna), e non chiedo di essere chiamata sul vocabolario “essere umano dalla diversa identità di genere”: questa è la spiegazione del lemma.

Diversità etnica non significa “pericolo di essere cambiati”, sebbene nella storia – per chi l’ha studiata – non ci sia stato un caso di incontro tra popoli diversi da cui non sia uscita una evoluzione in termini di crescita, in primis culturale, di civiltà. Pensiamo a tutte quelle aree che per posizione geografica hanno rappresentato crocevia, dal Mediterraneo alla Mitteleuropa. Forse quest’ultimo esempio è quello che ci piace di più, perché ci fa pensare a grandi uomini che hanno portato rivoluzioni importanti nella nostra cultura. Ma potremmo andare a ritroso nel tempo per accorgerci che non è stato un caso che la filosofia sia nata a Mileto, colonia greca dell’Asia Minore. Lì dove i popoli si sono incontrati (e non scontrati) n’è scaturito un fermento di intelligenze, che nobilita proprio le diversità piuttosto che le comunanze.

Èthnos, popolo, segmento di una società più ampia i cui membri sono considerati e si considerano appartenenti a una cultura comune, e si impegnano in attività nelle quali tale cultura condivisa è il fattore principale. Che poi, col procedere delle trasformazioni sociali e non solo, oggi l’identità sia diffusa o trasversale a più culture è un discorso calzante e interessante da affrontare, ma è un altro discorso.

Resta il fatto che “etnia” non ha e non può avere (come inveceè accaduto per “razza” già molto tempo fa, e la Costituzione a questo proposito si è tardato ad aggiornarla) un significato dispregiativo, non più di quello che un bulletto può dare alla parola “ebreo”.