Composta indignazione di una siciliana

Non sono giornalista né pubblicista, nel senso che non sono mai stata iscritta al relativo albo professionale. Tuttavia, da operatrice culturale e scrittrice sono in costante contatto con qualsiasi tipo di lettore. Ciò mi porta a pormi la questione etico-deontologica ancor prima di battere sulla tastiera, dal momento che non scrivo per incassare ma per dare un contributo alla società in cui vivo. L’onestà intellettuale, oltre a una sufficiente istruzione, è il fondamento della credibilità.
Per tale ragione, in un momento di sfrenata follia, m’immagino una situazione fantascientifica in cui un tavolo di professionisti, di cui non faccio i nomi per non ricevere querele ma soprattutto perché non ce n’è bisogno (intelligenti pauca), tiene una lectio magistralis che comincia con una rispolverata teorica per le giovani leve di cui qui sotto trovate una sintesi in punti:

  1. I postulati etici della comunicazione sono: a) la libertà (condizione ontologica dell’agire etico); b) la verità (ideale regolativo della conoscenza): è interessante come l’inglese truth (verità) derivi dalla stessa radice di trust (fiducia) e l’italiano vero dalla radice var (credibile, meritevole di essere creduto, corrispondenza tra ciò che penso e ciò che dico). L’informazione non può essere una merce, ma è un bene comune. Per citare Gandhi: la verità è come un diamante, ha molte facce ma è una sola; c) il rispetto reciproco (presupposto della comunicazione), basato sulla co-responsabilità: la persona non è un mezzo, uno strumento declinato in funzione dell’usabilità, ma è fine in sé.
  2. Comunicare bene non significa comunicare il bene.
  3. L’etica riguarda in egual misura il cosa viene detto e il come.
  4. La responsabilità morale non è solo di chi controlla gli strumenti della comunicazione né solo dei professionisti e degli operatori dei media, ma anche di utenti/fruitori, a cominciare dalla selezione dei contenuti cui prestare attenzione e credito.
  5. C’è differenza tra vero e verosimile.
  6. L’etica può esitare in norme o prestarsi alla discrezione della coscienza personale. A quest’ultima area fa riferimento la deontologia professionale (sistema autodisciplinare che dà qualificazione giuridica a fatti che l’ordinamento potrebbe considerare irrilevanti). L’appartenenza a un ordine professionale comporta prestigio ma richiede decoro. L’abuso del potere mediatico è una delle conseguenze di un vuoto etico e deontologico.

L’art. 21 della Costituzione della Repubblica italiana recita: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (…) La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure (…) – a cui, a mo’ di controparte, abbino l’art. 48 della legge n. 69 del 3 febbraio 1963: gli iscritti nell’albo [dei giornalisti] che si rendano consapevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionali o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’ordine, sono sottoposti a procedimento disciplinare.
(Per qualcuno aspettiamo da anni).

Ci consoliamo con queste parole, che non sono i nostri immaginari relatori a dire ma un intervento dal pubblico: Il diritto all’espressione è un diritto inalienabile. Il diritto di proferire impunemente delle sciocchezze o delle infamie induce a portarle avanti a oltranza fino al punto in cui esse si vanificano da sole. Tra l’altro negare a lettori e ascoltatori la capacità di giudicare da soli significa considerarli degli idioti[1].

Giulia Sottile

[1] Bellino F. (2010), Per un’etica della comunicazione, Mondadori.