Take care of the sense, and the words will take care of themselves, disse la Duchessa tra le pagine rimbalzanti and duble face di un improvviso fulminante Humpty Dumpty, quando Giulia Niccolai, reduce dalle lezioni di Carrol, sperimentava l’immaginismo. Risuona nel fondo dello stomaco quanto rimesta tra i primi ricordi della scuola, quando la prof. d’inglese ti chiamava asina, ti regalava il sufficiente perché no non eri terrorizzata ma svogliata o cretina, mentre quella d’italiano raccomandava di non prepararsi discorsi da inghiottire. Il mutismo paralizzante dell’ansia da prestazione faceva i conti con l’impatto sulla memoria perché credevamo le parole ci appartenessero. E invece eravamo noi ad appartenere alle parole.

Era gialla, un limone rugoso con gli occhiali, e noi tutti asini col culo stretto tra i misteri di uno studentissi bukki, come diceva il limone, che la lingua la sapeva. Solo uno di noi aveva il coraggio di risponderle I like fragolas, riscattando la nostra viltà.

Le parole. Words. Che poi somiglia a worlds, una l che fa da serratura poiché le parole aprono mondi, oppure è essa stessa la chiave che fa mondi nelle parole. Accordi tra sconosciuti, ombre delle cose, margine di una superficie tra il colore e lo spettro restante.

La prof. d’italiano disegnava cuori con la penna rossa. Diceva di non imparare i discorsi, di non ripetere a ruota, la voce è sabbia sui muretti di Lipari d’inverno. La chiarezza e la stabilità di una traccia sta nel senso che ci arriva. Il senso si aggrappa, si salda, prolifica. Il senso parla le parole che vuole, anche se a volte ne scegliamo altre, tradendolo. Arriviamo sfiniti, soddisfatti per la nostra forbitezza o frustrati per l’improprietà. Perché accarezziamo le parole, le stacchiamo come petali di margherite e poi le ammiriamo ancora, in fila, in cerchio, a triangolo, facciamo le rime baciate, alternate, incrociate, incatenate, incateniamo. Dimentichiamo.

La prof. di storia aveva nei in faccia, tanti, parlava forte e voleva le date. Quando? Quando? I miei compagni non rispondevano, con un velo seminvisibile sopra il labbro fissavano lo spazio tra i seni prosperosi, sotto la camicetta rosa trasparente. La prof. d’italiano non c’è più. Disegna i cuori nel mio cuore, ch’è ormai una matrioska. Ogni tanto dice di stare attenta al significato delle cose, e le parole verranno themselves; in fondo anche lei è una duchessa, col suo filo di perle e la penna rosso fragolas.

Giulia Sottile