In questi mesi nelle classifiche dei libri più letti (ed è incoraggiante – bisogna darne adito – che esistano simili hit parade), spiccano, in rappresentanza di un momento storico particolarmente sentito come l’attuale pandemia mondiale, i romanzi “La peste” di Albert Camus e “Cecità” di José Saramago. Le ragioni di tale rispolverata sono la notevole similitudine, ora in forma verosimile ora fantastica, con la tragedia che ha messo in ginocchio quasi ogni angolo della Terra e che i due premi Nobel per la letteratura riescono a rendere in modo magistrale. Sono inoltre letture da portare con sé nel proprio bagaglio culturale anche in “tempi di pace” per l’importanza che nella Storia della letteratura hanno assunto.
Tuttavia, forse perché non ha ricevuto alcun premio, forse perché portavoce di una realtà storico-sociale di cui ci vergogniamo e del cui ricordo vogliamo liberarci (nella misura in cui in alcuni contesti non sia stata ancora superata), da nessuna parte si è menzionato Carlo Levi, con il suo “Cristo si è fermato a Eboli”.
Altra ipotesi è l’inconciliabilità dell’immagine dello Stato e della Sanità con la narrazione di questa nuova ondata pandemica, dove i medici sono eroi e lo Stato sta dispiegando tutte le proprie risorse in favore dei cittadini. È probabile che sia davvero così, e in tal caso continua a persistere la curiosità di andare a confrontarsi con una realtà pregressa, quella delle periferie italiane d’epoca fascista, dove la povertà era a un livello da noi inimmaginabile e la malaria, per arretratezza dei mezzi e incuria delle istituzioni, era incurabile.
Il romanzo è una trasposizione narrativa e frammista a finzioni letterarie dell’esperienza di confino (per ragioni politiche, era il biennio 1935-36) dell’Autore, il quale da medico (pur non esercitante) si confronta con un mondo dove la civiltà, con i suoi vantaggi e le sue corruzioni, non è arrivata. Cristo si è fermato a Eboli, lo sbalzo culturale del cristianesimo con i suoi risvolti umanitari non ha varcato i confini di terre impervie ed emarginate. Il paganesimo, con il suo bagaglio di riti e superstizioni, con il suo panteismo, tiene i contadini distanti dalla religione e da quella forma corrotta della cittadinanza che è la statocrazia. Diffidenti da ogni colore di casacca perché diffidenti verso ogni Istituzione, conoscono il brigantaggio come unica forma di agire politico, lì dove non ha già vinto la rassegnazione. La gente a volte non possiede indumenti, deve uccidere i propri animali perché non può pagarne le relative tasse e neppure l’emigrazione in America può servire al riscatto dal destino di decadenza economica. L’ambientazione della Basilicata rientra pienamente nella Questione Meridionale, che fa ancor oggi discutere.
Perché leggere Carlo Levi insieme a Camus e Saramago? Non solo per il pregio letterario del suo romanzo, costellato di prosa lirica e di straordinarie digressioni sulla psicologia dei personaggi; non solo per la perizia antropologica e il profondo rispetto con cui si approccia alla cultura, alle tradizioni, alle condizioni del popolo contadino della città fittizia di Gagliano (Levi fu confinato ad Aliano); ma anche perché quelle condizioni in cui la pandemia (allora la malaria) coglie la popolazione non sono diverse da quelle in cui si trovano purtroppo ancor oggi molte persone (circoscrizioni svantaggiate all’interno di più ampi contesti di pronto intervento, per un verso, e, per altro verso, interi popoli come quelli amazzonici, per portarne un esempio).
Invitiamo a leggere Levi perché, anche se noi possiamo spesso fidarci del nostro Sistema Sanitario, in questi mesi alcune aree geografiche non godono dello stesso privilegio (e non serve andare in Africa per accorgercene!).
Dove non è arrivato “Cristo” (che si fa sin dall’inizio metafora di ben altro), non sono arrivati nemmeno i Re Magi, i ricchi sovrani che portano aiuto economico a chi dorme in una grotta.

Giulia Sottile