Parole con due t le trovi spesso: hanno un terz’occhio qualche volta lesso. Usarle non conviene, specie adesso che in tutto il mondo è doppio anche il fesso: intendi quel che dico e avrai successo!
NETTO – Il netto è l’aggettivo parente povero di un casato di nobili che comunicavano solo con i dotti e i raffinati (come i Guermantes di Proust); prova ne è lo stemma latino dei suoi avi che si presentavano con il blasone di nitidu(m), da nitēre che significa splendere. Insomma netto si capisce che è un nobile decaduto dal momento che da splendido si è ridotto a farsi definire pulito, anche se in senso pieno di assolutezza e completezza. Del nobile gli sono rimasti alcune prerogative feudali che gli consentono di parlar netto, come di gestire certe decurtazioni del tipo ritenute di legge, per cui c’è un costo netto, o al netto di IVA, etc. La sera fa i conti per conoscere il guadagno netto della giornata. La mania dell’antico splendore la esibisce quando pretende di affermare che cielo netto non teme tuoni, e quando qualcuno mette in forse il netto tra valori attivi e passivi di un bilancio. Una purezza di cui è geloso fino a farsene scudo con un colpo netto tutte le volte che gli capita.
OTTO – Si presenta come numerale cardinale invariabile quel camaleonte dell’otto, e fin dalla targa posta all’ingresso del suo studio fa sapere alla clientela che è pronto a fungere da sostantivo. Il portiere dell’albergo dirà che l’otto ha chiamato mentre se ci si trova in un luna park si può salire sull’otto volante. In Grecia ai tempi di Platone l’otto veniva riconosciuto come oktò particolare, quella desinenza in o, che lo faceva considerare un parente stretto di duo, pertanto sempre in coppia ed emblema del duale. Duale che poi si è perso nelle lingue a seguire. Una finezza. Come è tale quell’abito solenne di due cerchi incollati l’uno sull’altro che lo presentano come simbolo dell’infinito. O se volete come anello di congiunzione tra il cielo e la terra. E non dimentichiamo che c’è l’ottava di una festa o di qualsiasi momento di cui celebrare la ricorrenza senza ricorrere al solito calcolo del dies a quo non computatur in termine. E a chi ricordare gli otto in pagella? Una forma di ruffianeria che fa tenerezza e merita ogni rispetto quando risolve tutto in quattro e quattr’otto, confermando con il suo comportamento quella dualità che gli avevano riconosciuto i greci. I fascisti superstiti, finché ce ne saranno (e ce ne sono, ce ne sono!) non dimenticheranno che si chiamava Otto il capitano Skorzeny, il gigante tedesco che portò a buon fine la fine degli arresti per Mussolini al Gran Sasso. Né si può disconoscere la personalità storica di Ottone primo, che dell’otto è stato accrescitivo, se non altro come donnaiolo. E poi, via, ammettiamolo, quel servizievole fungere da carezza onomastica quando attenua l’effetto fonosemantico sia di giovane che di vecchio con esiti comunque appropriati sia in giovanotto che in vecchiotto, come in altre occasioni in cui si presenta come seconda faccia di parole composte, come risotto, cappotto, barilotto etc. etc. E per fingere di non conoscere tra figliastri, figli e nipoti del prolificatissimo otto, dalla strofa di otto endecasillabi, l’ottava, a ottobre che era l’ottavo mese del calendario romano (in quello attuale è stato spostato al decimo). Sarete anche voi del parere di chiuderla qui per non correre il rischio di ottuplicare stimoli di crescita nella barba, sul volto dei lettori.
Mario Grasso