Omero definisce Achille “Pelide” per dire che era figlio di Peleo; ma dai tempi di Omero a quelli di internet non sono mancate dritte di poeti per le consuetudini linguistiche sui patronimici, la cui varietà non ha certamente esaurito l’offrire occasioni per varianti più o meno eufoniche. Anche se, in materia di eufonia, c’è da registrare più il potere dell’abitudine a un suono che il rispetto perentorio di regole sugli accenti e la fonetica gradevole. Igor Strawinskij con la progressiva diffusione delle sue opere all’insegna della tecnica dodecafonica ha contribuito a nobilitare il “diritto” individuale alle oscillazioni del gusto a favore delle dissonanze. E ci tenta una birichina voglia di insinuare come il più grande omaggio che si possa rivolgere alle tecniche contemporanee delle persuasioni occulte sia quel detto demonico che non si perita di diagnosticare: “Il popolo è un mostro senza testa, il primo che passa gliela presta”. Ma non facciamoci tentare dalle alzate d’ingegno e cerchiamo di spiegare, a noi stessi anzitutto, come in Italia, abituati ai carabinieri e ai corazzieri dell’Arma per eccellenza, da quando la stessa Benemerita dell’Ubbidir tacendo ha aperto all’arruolamento delle donne, si continui a stentare al momento di dire “Mia figlia è carabiniera”. Non c’era abituata. Il maschilismo. E c’è poco da appulcrare. Anche se adesso sono trascorsi parecchi secoli da quando i Padri della Chiesa in Concilio hanno riconosciuto, con un sol voto di maggioranza, che anche la donna ha l’anima. Un sol voto di maggioranza forse perché l’ammissione doveva essere propinata cum grano salis. O forse per veritiera rappresentazione del sentire dei Padri stessi e delle difficoltà incontrate al momento di decidere per il sì. Ma a stento. E a stento si dice oggi avvocata all’avvocatessa, o dottora alla dottoressa. Sicuramente solo per un effetto eufonico, quindi in oltraggio alla dritta data fin dagli anni 1910 da Strawinskij a favore di qualche abitudine alle dissonanze musicali. Più fortunate le donne psicologhe, infatti la loro professione è tra quelle nuove, d’epoca moderna, anche se non proprio d’ultimo grido, come per la sindaca, l’assessora e la consigliera comunale, che debbono ancora aspettare che la loro qualifica pro-tempore conquisti l’abitudine alla oscillazione del gusto popolare per nuove eufonie. Conquiste da cui trarranno vantaggio (finalmente!!!) le donne ingegnere con il loro diritto a essere definite ingegnere al plurale e ingegnera al singolare.
A questo punto di acquisizione si scoprirà che è stata una grossa imprecisione invocare qui dodecafonie, dissonanze e relativi geni pioneristici, come il qui citato Igor Strawinskij Fëdorovič. Infatti si dirà relativamente di eufonia, dal momento che si tratta di genuina consuetudine /abitudine. Un genere di abitudine che su altro versante ha reso feconda produzione verbale, nell’italiano della comunicazione ordinaria , di cioè, al limite, in qualche modo e fino all’aberrante e inestirpabile attimino.
2. E la patronimia? Non è che l’avevamo dimenticata dal momento che l’abbiamo eletta a tema della divagazione (che sarebbe appropriato definire divertimento più che digressione). Un divertimento che è qui cominciato al momento di citare Strawinskij, il cui patronimico Fëdorovič ci agevola per ricordare, anzitutto a noi stessi, che in Russia è consuetudine aggiungere al proprio nome e cognome il nome del padre. Una consuetudine che serve a distinguere l’identità nei casi di omonimia o cognomonimia come poteva capitare per i tre Tolstoj scrittori, che qui citiamo in ordine alfabetico dai meno noti Aleksej Konstantinovič (1817-1875) e Aleksej Nicolaevič, (1882-1945) al notissimo Lev Nikolaevič (1828-1910), autore di Guerra e Pace, Anna Karenina, etc.
Noi occidentali siamo meno scrupolosi, e quanto a omonimia e cognonomia abbiamo la comodità dei codici sanitario e fiscale per affermare all’occorrenza chi siamo. Ricordo, tanto per dare spazio alla civetteria di rinviare alla mia età piuttosto matura per dirla con eufemismo, che in tutte le domande di competenza scolastica che mi è capitato di dover compilare era d’obbligo aggiungere al nome e al cognome il nome del padre. Consuetudine archiviata in quanto le tecniche anagrafiche moderne hanno snellito procedure e procedimenti e provveduto a evitare imbarazzo nei soggetti che non potevano scrivere il nome del padre in quanto ignoto. Resta una riflessione da poter fare per chi abbia tempo da perdere quando anche il titolo di un romanzo non esita ad avvisare “Non ho tempo da perdere” (**).
Resta infatti il privilegio di poter vantare subito una discendenza di tal protonannavo col semplice rinviare al proprio cognome, come per esempio Achille di Giovanni, Francesco di Matteo, Antonio di Giacomo… e così via. Salva la variante di nobilitare la preposizione con la maiuscola Di. E siamo alla conclusione della divagazione per disoccupati, che insinua il sospetto di una offesa all’ortografia della maiuscola per i nomi e i cognomi. Va bene che non è più come in Russia il rinvio al nome del padre, infatti nell’uso italiano (Occidentale) il Di Francesco o altro nome che sia è di riferimento al nome di un remotissimo antenato cui si tramanda l’omaggio del ricordo e l’orgoglio di esserne discendente. Cioè l’esistenza di un padre il cui nome corrisponde a casato come per i De Giovanni, i De Chirico, dimostrazione esibita dal far precedere la preposizione con iniziale minuscola o maiuscola, a scelta di chi vuole esaltare la propria ascendenza, o umilmente democratizzarla.
È un privilegio che non potranno vantare i portatori di nomi di città: Caserta, Barletta, Ferrara, Catania, etc; né quelli di cui vengono definite le caratteristiche fisiche del capostipite: Grasso, Grosso, Piccolo, Basso, Sottile, Grande o di qualche colore, Verde, Bruno, Bianco etc. Un particolare su cui la piétas burocratica ha cercato di trovare quanto di meglio per non creare imbarazzo ad alcuno, come prima evidenziato, abolendo l’obbligo di indicare la paternità. Provvedimento quest’ultimo che, ancora una volta, non interessa chi può vantare un nome patronimico.
La seconda ciliegina sulla torta di quest’ultimo privilegiato caso di patronimico riguarda l’ortografia e l’uso della maiuscola per iniziale del patronimico. Maiuscola che per gran parte dei casi fa bella mostra nell’iniziale della preposizione unita al nome come per i casi di Dilorenzo, Digiacomo, Dipietro, etc. etc. Il cui esito è doppia sciocchezza, perché toglie significato al privilegio del patronimico e umilia il nome del patriarca (in quanto antenato-capostipite) che non avrà l’iniziale maiuscola che gli è dovuta.
Mario Grasso
(*) Questo spasseggio, tra provocazione e affermazioni, scaturisce da stimoli che mi sono stati dati dall’incontro a Comiso con autorità locali, amici antichi e conoscenze nuove, in occasione della presentazione del libro su i luoghi del genio in Sicilia. Precisamente: Sabato 30 marzo a Comiso a conclusione di un evento culturale propiziato e assistito dall’Amministrazione comunale, nei propri locali dell’Auditorium “Carlo Pace” , la sindaca della città, Maria Rita Schembari – docente di Lettere negli Istituti Superiori, nonché finissima intellettuale prestata alla politica amministrativa della città – a conclusione dell’evento di presentazione di un mio recente libro, e nel clima spiccatamente cordiale e festoso di una pergamena celebrativa dei valori letterari della poesia della comisana Adalgisa Licalzi, la sindaca, appunto, mi ha goliardicamente invitato a un parere filologico in pubblico sulla convenienza a definire assessora la sua collaboratrice amministrativa (presente nell’Auditorium) avvocatessa Manuela Pepi, con delega per il Bilancio. La mia estemporanea risposta non poteva interrompere il clima di simpatie e gratitudini reciproche spontaneamente creatosi lungo lo svolgimento dell’incontro con un pieno di attento e qualificato pubblico. Dovevo ragionevolmente dare continuità al festoso e straordinario empatizzare. Ed ecco da me confermato ex finta cathedra che sì, è giusto sia assessora la rappresentante di sesso diverso dell’assessore, e così per sindaca e per carabiniera!
(**) Non
ho tempo da perdere è il titolo del romanzo d’esordio del magistrato
Giuseppe Artino Innaria (ed. Prova d’Autore, 2019. Catania).