“Sulu lu pazzu canta, sulu lu pazzu campa”

 

 

Si dice che solo un folle possa arrivare alla soglia del pericolo senza percepirne la portata, desensibilizzato. Più saggio tacere e non destare il drago a protezione del baluardo. E se di follia non si trattasse? Tenersi l’etichetta del pazzo o combattere, più che per la causa, per la propria identità? È l’identità in sé che conta o sono le idee che essa contiene?

Cassandra non si poneva tutte queste domande quando le sue corde vocali ubbidivano a quella voce che da dentro lanciava i comandi, un po’ come gli artisti, che sentono solo la melodia del proprio sub-mondo. La sola melodia che veicoli profetiche note ancor prima che la ragione sia talmente organizzata da arrivarci per conto proprio. La pre-profezia è quella della figlia di Priamo… o di Italo Svevo che fa dire a Svevo Cosini che «quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo inventerà un esplosivo incomparabile e un altro uomo più malato ruberà tale esplosivo» eccetera eccetera. Zeno era in terapia, che pretendere!?

Condivideva lo stesso disagio mentale della sua precorritrice troiana, ignorata, che dovette assistere (lei) all’inesorabile dispiegarsi dei sanguinari eventi che videro protagonisti gli ignari della realtà così come le consapevoli divinità. Proprio grazie ai primi, le seconde uccisero Leocoonte, unico a credere alla sacerdotessa di Apollo, ma non quest’ultima, tutt’altro che una minaccia. Povera pazza! Era questo il prezzo da pagare per la conoscenza, la maledizione del cantare invano. E se la maledizione fosse stata autoinflitta, nell’uomo dinnanzi alla paura vestita di codardia?

Ma sono sorprendenti i labirintici intrecci delle dinamiche di interessi che schierano, da un lato, Atene, Era, Poseidone e Ermes sotto l’autorità di Zeus a protezione dell’esercito greco, dall’altro, Apollo, Afrodite e Ares di guardia alle case dei troiani. Tutto pilotato dall’alto dai potenti a dispetto dei mortali, all’oscuro e sprovveduti.

Nessuno di loro, eppure, nel caos delle faide, torse un capello a Cassandra. Ma se “sululupazzu canta, sululupazzu campa”, come accadde che Aiace mise fine alla sua vita? Il “dio” la risparmiò mentre “l’uomo” la uccise?! E se l’eroe greco rappresentasse l’umano e inesorabile della morte naturale, mentre gli ordini dall’alto la forbice precoce e tempestiva a sventare piani di spodestamento?

Sovviene allora altro interrogativo: cos’è la morte? O meglio, cosa vuol dire vivere? Se il pazzo abitasse le parole della gente che dopo anni secoli millenni lo chiamano in causa o riverberano i suoi canti… è morto o campa? E chi respira e non lo riverbera… campa?

Cosa vuol dire il “campa” del nostro proverbio?

Giulia Sottile