romanzo, ipotesi clinica
Ci è già capitato, scrivendo proprio di Marcella Argento, di constatare il grande spreco di carta che ogni anno si compie mandando in stampa libri inutili, oltre che scadenti tanto nel contenuto quanto nella forma. In fuga dalle sfavillanti vetrine, allora, non sarà certo un ripiego rifugiarsi in opere più datate, e senza necessariamente ricorrere ai classici, trovandovi l’attualità che un’opera letteraria, che tale si candida a essere, continuerà ad avere nel tempo. Allora scrivevamo di “Chimaira”. Adesso abbiamo compiuto un ulteriore passo indietro per risalire all’esordio letterario di Marcella Argento, allora giovane medico e già operatrice culturale, condirettore della rassegna mensile Gazzetta Ufficiale Dialetti, Lingue Tagliate, Scritture Brade e Altre Approssimazioni Letterarie Semiclandestine. Si affacciava nella narrativa nel 2002 con il romanzo “Victimae”, storia di violenze, al plurale, incentrata sul percorso interiore di due personaggi: un ragazzino disabile e un adulto, “il dottore”, pedofilo recidivo.
Con grande abilità narrativa l’Autrice è stata capace di catturare il lettore, impressionarlo, turbarlo, tenerlo sul filo del rasoio, in un continuo e prepotente stato d’ansia come minaccioso potenziale d’azione, stato in cui d’altronde gli stessi protagonisti si trovano. Questi ultimi si delineano pian piano, attraverso un gesto, un dettaglio, un pensiero, attraverso le parole dei personaggi di contorno. Ciò che a tal proposito salta all’occhio sorprendentemente è la capacità empatica di Marcella Argento, che le permette di calarsi nella profondità della psiche dei personaggi, senza indorare la pillola, riuscendo a dar voce a pensieri, sentimenti, emozioni, paure, aspettative, speranze di animi stravolti dalla vita e dalla malattia. La scrittura in terza persona si serve di una focalizzazione che di volta in volta slitta dal bambino all’adulto come se davvero a parlare fossero prima il bambino e poi l’adulto. Il narratore ora ragiona come ragionerebbe un ragazzino con deficit cognitivo, con la difficoltà a processare troppe informazioni in una volta, con la semplicità di un mondo interiore reso caotico dalle esperienze vissute, dai sensi di colpa basati su fantasie mai smentite; ora ragione come il dottore, tra consapevolezze e deliri, autogiustificazioni e istinti. La narrazione è “orrifica”, pittorica, a volte si ha la sensazione di vedere la scena in un film di Kubrick. Per le tinte assunte, a tratti sembra il racconto di un grande incubo condiviso.
Gli spunti di riflessione sono molteplici. Emerge la genitorialità, quella che riversa nei figli ambizioni e aspettative di vita che vanno necessariamente confermata a ogni costo, pena il senso di fallimento come esseri umani. Subentra l’autoritarismo, l’ossessività, il controllo, in un mondo dove non c’è spazio per l’errore e per la sofferenza, dove non esiste il dialogo. In questo mondo l’amore non è incondizionato, i figli non sono accettati e amati per quello che sono, la loro opinione è di secondaria importanza. Entrambi i protagonisti hanno fatto parte di dinamiche in cui la rabbia, la delusione, il dolore non avevano mai avuto l’autorizzazione ad esprimersi, perché sarebbe stata una colpa, una debolezza, un affronto, o più semplicemente perché «Non c’era tempo per piangere». Se Goya diceva che “il sonno della ragione genera mostri”, noi possiamo senza esitare aggiungere che lo stesso dicasi per le emozioni. Silenziare un’emozione scomoda genera mostri.
«“Se tu piangessi, dottore, sarebbe come ritornare bambino” (…) “Se tu piangessi, ritroveresti la speranza”».
E che dire poi di quanto poco gli adulti comprendono quanto i bambini comprendano? Il mondo interiore dei bambini è ricco in un modo che ci si è dimenticati, sui non-detto fabbricano fantasie capaci di orientare l’intera esistenza oppure riescono a cogliere anche ciò che viene omesso, a leggere tra le righe. Sicuramente i bambini capiscono quando sono amati e quando no. E il bisogno disperato di amore può condurre da tante parti, come all’accondiscendenza, soprattutto quando si cerca di capire chi si è, quale sia la propria identità. E dei fantasmi genitoriali non ci si sbarazzerà mai, di quei lasciti che, nel bene e nel male, accompagnano tutta la vita e condizionano pensieri, sentimenti, comportamenti.
Il dottore è un uomo di cui non a caso non si saprà mai il nome. Uno di quei pedofili consapevoli che vive momenti di profonda crisi, tra sensi di colpa e autocontrollo, e momenti di agiti, in cui il pensiero si annulla e non c’è altra scelta. Non è un tentativo di giustificare. L’unico a giustificare è il personaggio, ai propri stessi occhi, nella ricerca di ragionamenti, alibi, argomentazione che avallino le proprie istanze, ma appare palesemente fallimentare. Lo stesso modo di narrare le vicende e i pensieri suggerisce un andamento-pulsar di un Super Io che a tratti si affaccia, chiedendo spiegazioni, a tratti si allenta. Solo più avanti, nel cuore del romanzo, inizia lentamente ad emergere nel lettore un sospetto, che spieghi le ragioni, le origini del disagio del dottore. L’assenza di nome proprio non è presente solo nel romanzo ma anche nella vita del suo personaggio, che non ammetteva né che qualcuno si rivolgesse a lui chiamandolo per nome, né che lui stesso si pensasse in questi termini. La de-personalizzazione lo priva degli stessi connotati umani, coscienza compresa, così da non trovare difficoltà a convivere con se stesso, con i propri errori, come fosse stato qualcun altro a commetterli, così da non trovare difficoltà a operare il disimpegno morale e a considerarsi alla stregua di un mostro.
Il bambino si chiama Giò. Ha una malformazione congenita alle mani e ai piedi, l’intelligenza leggermente al di sotto della norma e stereotipie motorie. È bravo a scuola ma ha difficoltà a relazionarsi, è bullizzato dentro e fuori casa. Si muove in una dimensione che sembra come un limbo, dove gli stimoli giungono ovattati e fatica ad avere un proprio filtro dell’esperienza né alcuno ha mai provato ad aiutarlo nel costruirlo. L’unico desiderio è essere accettato, amato, sentirsi valido, autorizzato a esistere.
Ricorrono giochi di identificazioni proiettive tra i due protagonisti, attratti l’uno dall’altro per ragioni che diverranno sempre più chiare con l’avvicinarsi della conclusione del romanzo.
Ma, oltre a essere un romanzo, questa opera prima di Marcella Argento è anche una ipotesi clinica che si serve della veste del romano per indagare, ragionare su un tema complesso e scabroso, per scendere nel profondo dell’animo umano dove è più buio, dove è più terribile e nessuno vuole andare. Con una lente di ingrandimento, osserva, riflette, formula ipotesi (ipotesi che emergono implicitamente dalla narrazione dei vissuti interiori). Reiterazione? Identificazione con l’aggressore? Ri-direzionamento dell’aggressività? Sicuramente l’azione è un antidoto contro il pensiero, lì dove pensare genera sofferenza e persino un semaforo rosso in strada o una coda di auto può fare impazzire. L’azione, o agito (come si preferisce dire in questi casi), seda.
L’Autrice poi approfitta per lanciare virate dissacratorie verso la città di Catania (dove le vicende sono ambientate) e il Sud in generale, con brevi digressioni sulla corruzione ma anche sul bisogno della gente di avere e ricevere fiducia, di essere creduta e di credere.
Complessivamente quindi anche lo spirito del romanzo acquista questa duplice tinta agrodolce, fino all’inaspettata conclusione che mostra tutta la durezza della vita.
Giulia Sottile