Ho visto il film di Luca Guadagnino senza alcuna aspettativa, non avendo letto né il romanzo di André Aciman né alcuna recensione. A posteriori, ho voluto confrontarmi con il World Wide Web, il nuovo Far West che del vecchio ricalca spirito e toni. Sì lento, sì monco di particolari che sicuramente nel libro erano più approfonditi, sì o forse no tutto il resto, ma l’esito per me è stato che, tra i film con tematica omosessuale, dopo il capolavoro di I segreti di Brokeback Mountain, senza nulla togliere ai meriti degli altri (per par condicio non ne citerò alcuno), Chiamami col tuo nome è quello che mi è piaciuto di più. Le ragioni di fondo sono tre.
La prima è l’assenza di cliché triti e ritriti, dove al centro possa esserci la discriminazione o il difficile coming out (che ho scoperto venire dal detto to coming out of the closet, che fa pensare allo scheletro o all’amante). No. Al centro c’è una storia d’amore vissuta con l’ingenuità e l’ansia dell’adolescenza, dove la scoperta dell’altro si affianca alla scoperta di sé. Il tema del pregiudizio e dell’etichettamento è un’ombra lontana, solo alla fine vagamente accennata, quando Oliver, durante la famosa telefonata che per alcuni ha rappresentato una scena superflua, dice a Elio: “Sei fortunato, mio padre al suo posto mi avrebbe chiuso in un centro di recupero”. Lo stesso Aciman in un’intervista ammette di aver espressamente voluto questa normalità.
La seconda ragione è la fluidità con cui viene rappresentata la sessualità dei personaggi. In realtà, sebbene qualcuno sostenga che le esperienze eterosessuali dei due protagonisti non siano altro che coperture o ripicche, io non la penso così. In realtà ne sappiamo poco. Non c’è mai chiarezza su questo punto. Forse, considerando la società ebraica degli anni ‘80, può essere abbastanza probabile che la scelta finale di Oliver sia di compromesso con la famiglia e col mondo accademico a cui si accingeva, soprattutto stando alla costanza dei propri sentimenti per Elio. Ma questo non esclude una pansessualità, sulla base della quale sia stata poi compiuta una scelta razionale.
I confini sono ancor più labili nel caso di Elio, perché, se è vero che ogni sua scelta ha avuto come centro gravitazionale Oliver, è anche vero che in intimità con Marzia non aveva proprio l’aspetto dell’agnello sacrificale. Dunque, l’ambiguità (forse voluta) ci permette di non trarre conclusioni e avanzare l’ipotesi di un orientamento più fluido di quanto non venga né percepito nella vita né rappresentato nel cinema. In entrambi i contesti, si tende spesso a pensare dicotopicamente secondo un logica binaria. Questo dilagante binarismo non è solo una transenna quando si parla di identità di genere, ma anche in materia di orientamento sessuale. Quindi viva la rappresentazione su schermo di una sfaccettatura molto presente ma poco trattata.
Terza ragione è quella che probabilmente ha commosso molti di noi ed è la figura del padre di Elio (proprio mentre si credeva che fosse invece la madre quella ad aver capito tutto e a tramare per il bene del figlio), e in particolare il monologo conclusivo in cui si siede sul divano e, cosa al limite del fantascientifico per un padre degli anni ‘80 (e in molti casi anche di oggi), … parla. Parla di sentimenti. Non c’è alcun atteggiamento di giudizio, alcuna aspettativa. C’è un padre che svolge la funzione genitoriale, quella di sostenere il figlio nell’elaborazione delle proprie esperienze, aiutandolo a comprendere cosa prova ma innanzitutto ad accettare se sesso e il dolore.
Non analizzerò il suo discorso, che parla da sé, mi limiterò a renderlo qui disponibile per chi voglia ascoltarlo. Dico solo che, al di là del tema dell’omosessualità, che è in realtà soltanto una cornice, questo esempio di padre (moderno) è tra i modelli virtuosi che mi piace citare come riferimento, tra i pochi che troviamo nel cinema ma che sono in aumento, per una educazione sentimentale e sociale per tutte le generazioni, che ridefinisca, attraverso i potenti meccanismi scatenati dalla magia dello schermo, le dinamiche relazionali di una società che vuole evolversi nella direzione della civiltà.
Se proprio vogliamo aggiungere altre piccole e secondarie ragioni per cui mi è piaciuto questo film, c’è la bravura del genietto di Timothée Chalamet, unitamente all’ambientazione italiana e agli inserti linguistici che (vedendo il film in lingua originale) gratificano anche la nostra appartenenza.
Giulia L. Sottile