Aveva sciacquato il viso ma la pelle le ardeva ancora. Capitava, d’estate, all’imbrunire del giorno e della pelle; era come se mettesse una torta in forno e lo strato superiore divenisse più consistente quasi biscottato più vicino alla fonte di calore. D’estate le si biscottava la pelle. Capitava, d’estate, anche altro, forse per effetto del calore quasi squagliasse i nervi o per la pressione li facesse saltare per aria come molle, ma capitava d’estate e quindi era normale diventare altri. Dove la legge imponeva un approccio maniacale alle cose della vita e dove improvvisamente si era deciso di amare il mondo e di volerne sperimentare i doni con i sensi, magari suggestionandosi di riattivare gli extra-sensi, il rullio delle marce era un gran silenzio. All’altro capo della passerella si picchiava un tamburo e un coro trasformava la folla in un’unica entità, il richiamo della festa. Il fruscio di qualcosa faceva da base a tutto, o meglio uno sfregare, uno schiumare sulla rena senza rena e sembrava persino di sentire l’aria salmastra ma forse erano i riverberi a traspirare da quella pelle croccante. Lo schiumare rintoccava tra un battito e l’altro, inquadrato in uno schema di eh! capaci di ipnotizzare e dovette scrollarsi il capo per non imbambolarsi in piedi. Solo allora si accorse che ignari della festa – la festa ignara di loro – i cani di tutto l’isolato erano intenti a un abbandono afflitto, da ogni dove latravano e ululavano quasi piangessero, urlassero al cielo perché, che si spiegasse meglio, in quanto proprio non si capiva la ragione per cui il loro corpo sentisse qualcosa di così opprimente. In lontananza, mentre qualcuno perdeva se stesso, mentre la musica diventava un infinito silenzio, i veri protagonisti di quella notte erano i cani, a tradirne l’essenza, l’intento, a cogliere il malessere di ogni sasso, di ogni albero, di una libellula e di un orso, di una bottiglia d’acqua, dell’orologio da polso, del battito di un cuore, della ricrescita della barba, il malessere del sole quando oltrepassa Cane Maggiore e Minore ed è più vicino alla Terra tanto da poterla bruciare. E i cani rispondono. Il mondo vi passa sopra come un carrarmato sulle lattughe. E così il latrare era un flebile, lontano, polifonico soffio sullo sfondo di una bugia. Una mano invisibile alzava nuovamente il volume della festa, del nuovo tormentone del momento, ma i cani avevano già parlato. Fosse stata cane, si sarebbe unita a loro, guardando la luna tagliente con aria apprensiva e di sfida al contempo. Ma poteva limitarsi a un mezzo sorriso, un leggero e lento roteare delle spalle senza pensarci, come da automatizzata consuetudine al rinfrescare dell’aria, a dare un’ultima occhiata ai fiori in balcone e tornare dentro.
(Giulia Sottile)