COTONE IDROFOBO

rubrica di pareri socio-psico-eccetera

 Il silenzio-stampa solitamente si addice alla settimana pre-elettorale e non a quella successiva, in cui solitamente scoppia il putiferio tra notizie e opinioni. Tuttavia a tal proposito – circa i risultati delle europee 2019 con picco in su per le ultra-destre – noi non ci pronunceremo, sia perché c’è poco da dire (perché ci sarebbe sin troppo), sia perché non a questa rubrica compete fare ulteriore opinionismo sul tema. A questa rubrica compete opporre pensiero critico scientificamente fondato a fronte di dilaganti impoverenti semplicismi, i quali non possono che riversarsi sul sociale.

Questa provocazione ci viene dettata da uno dei tanti titoli di giornale che ci scorrono davanti ogni giorno. Oggi, quello su una donna transessuale violentemente picchiata da un “branco” perché si era rifiutata di accettare una proposta di sesso di gruppo.

Non serve pronunciarsi sul biasimo del gesto, biasimo che diamo per scontato essere universalmente condivisibile, ma riteniamo che sia opportuno soffermarsi per qualche minuto su un tema di fondo: la frequente associazione che il senso comune attua tra individuo transgender e le condotte sessuali meno socialmente accettate. (Chiaramente non teniamo qui conto del fatto che molte volte le condotte meno socialmente accettate si ripropongono atomisticamente dagli stessi felicemente praticate).

In altre parole: i trans fanno le cose porche.

Ma è davvero così o siamo dinnanzi a uno stereotipo che si autoalimenta inghiottendo tutti in una spirale? La domanda è naturalmente retorica in quanto la risposta è nota. Lo è tanto di più da che si è diffusa – e si sta diffondendo – una cultura sull’argomento, che, sempre meno tabù, consente di comprendere chi e cosa c’è sotto l’etichetta. E a proposito di etichette, se un tempo era più semplice finire per identificarsi in qualcosa che veniva attribuito come una condanna (traducendosi in profezia che si auto-avvera), oggi ci si sente più liberi – sicuramente più motivati – a trovare la propria strada e il proprio stile di vita anche se nati in un corpo anatomicamente dissonante rispetto alla propria identità di genere.

Per farla più semplice: gli individui transgender sono promiscui non meno di tutti gli altri nella stessa misura in cui non lo sono non meno di tutti gli altri. Da ambo le parti, la scelta del darsi a tutti e/o in gruppo o del darsi a un partner esclusivo non è legata all’identità di genere o alla conformità o meno di quest’ultima al sesso anatomico. Non tenerne conto – e dunque non considerare questa categoria al pari di qualsiasi altra sino al non considerarla affatto una categoria a parte nell’approcciarsi a temi che invece riguardano tutti – sarebbe lo stesso che affermare che i neri delinquono mentre i bianchi sono poverelli, gli uomini picchiatori e le donne vittime.

Cos’è allora che ci fa spesso associare a queste persone condotte sessuali distanti dalle presunte nostre? Cos’è che guida le nostre aspettative sul loro comportamento? Una possibile spiegazione riguarda meccanismi psicosociali che si azionano in tantissimi contesti della nostra vita quotidiana e che lavorano per la nostra identità sociale: tra gli altri, padronanza e affiliazione.

Per il mantenimento della nostra integrità identitaria, è per noi fondamentale creare in ogni campo un gruppo di riferimento (in-group) (possiamo averne più d’uno a seconda della parte di noi che consideriamo e della sfera della nostra vita) e opporlo a un altro gruppo che, al contrario, in quella sfera di vita, non ci rappresenta (out-group). La dinamica è molto simile a quella che domina le competizioni sportive. Anche qualora noi fossimo in panchina, ogni punto segnato dalla nostra squadra è un punto nostro, ogni errore della squadra avversaria è un punto nostro. La musica cambia quando la situazione si capovolge: ogni errore di un compagno è il suo errore (o la sua “sfiga”) e non rappresenta la squadra, ogni virtuosismo o goal del singolo avversario è un colpo di fortuna e, parimenti, non rappresenta la squadra. Questo è ciò che avviene nella nostra mente affinché le nostre percezioni restino coerenti con i nostri schemi mentali, fatti di diagrammi di categorie. In sintesi: di stereotipi. Queste distorsioni sono funzionali alla nostra integrità perché ci permettono di tener su l’immagine che abbiamo di noi stessi (la storia che ogni giorno ci raccontiamo) filtrando ciò che più ci piace.

Dire che un determinato comportamento è rappresentativo del gruppo esterno (come qui traduciamo il concetto di out-group) ci permette di aumentare la distanza tra noi e i suoi componenti e dunque tra noi e quel comportamento. (Il probabile fatto che questo possa essere un modo di esorcizzare quella parte di noi che lo reclama è tanto più forte quanto più è radicale e perentoria questa presa di distanza, ma non compete alla psicologia sociale occuparsene bensì alla psicoanalisi, ed è comunque una tesi opinabile). La presa di distanza che relega non solo il componente del gruppo esterno ma l’intero gruppo, quindi, ha una doppia funzione: far guadagnare punti – per utilizzare ancora la metafora delle squadre sportive – sia al proprio sé (fortificando autostima e senso di padronanza) che al proprio gruppo di riferimento (fortificando il senso di affiliazione). Padronanza e affiliazione, inoltre, si influenzerebbero a vicenda, dal momento che l’idea di saperla lunga e di sentirsi un componente rappresentativo dell’in-group, insieme alla conseguente superiore aspettativa di consenso da parte di esso, ne rafforza anche l’identificazione; al contempo, la luce positiva sotto cui si vede il gruppo in cui ci si identifica porta acqua al mulino dell’autostima.

Inoltre, alla tendenza a differenziare tra loro i componenti del gruppo di appartenenza dettata dalla necessità di sentirsi unici (“io sono diverso dai miei amici”), si abbina quella a uniformare gli individui del gruppo esterno per effetto di omogeneità (“sono tutti uguali”). Gira e rigira, alla fine si va a parare sempre – purtroppo va detto – nell’ignoranza, pur quando in buonafede. Conosciamo pochi individui dell’out-group, non ne abbiamo dunque familiarità, intratteniamo con loro una quantità molto più limitata di relazioni e in luoghi in cui spesso tale interazione non è facilitata, oltre al fatto che, mentre per sentirci diversi dai nostri “amici” abbiamo bisogno di “lavorare” di più sui dettagli, per sentirci unici e diversi dagli altri è sufficiente chiamare in causa le caratteristiche associate all’intero gruppo.

Più è fragile e precariamente in equilibrio la nostra autostima, più questi meccanismi sono potenti e ci governano nostro malgrado.

In soldoni: se quel comportamento non rappresenta il singolo ma il gruppo e io non appartengo al gruppo, io sono al sicuro dall’eventualità che ciò possa riguardarmi; inoltre, nella misura in cui io appartengo a un gruppo che fa cose giuste e in cui tu appartieni a un gruppo che fa cose sbagliate, io resto qua, tu resti là, e non devo ristrutturare i miei schemi mentali che metterebbero in discussione lo stesso modo in cui percepisco la mia appartenenza, dunque l’integrità.

Ciò vale per qualsiasi diade gruppale venga presa in esame: omosessuali/etero, uomini/donne, bianchi/neri, grandi/piccoli, malati psichici/non, eccetera.

E se abbiamo snocciolato questo gran discorso sulle percezioni intergruppali per parlare di aspettative è perché le percezioni orientano le aspettative.

Dunque, i trans… fanno le cose porche?

Giulia Sottile