Illuminante. È la prima parola che viene in mente dopo aver lettoAccountability, la virtù della politica democratica (Città Nuova, pagg. 124, euro 12,00), di Anna Ascani, laureata in filosofia teoretica, giovanissima componente della Camera dei Deputati nonché della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione, in sede nazionale, membro della delegazione parlamentare italiana, in sede di Consiglio d’Europa. L’aggettivo illuminante si addice alla personalità dell’onorevole Ascani,  per la sorprendente chiarezza di ogni sua azione, in un periodo della nostra storia nazionale in cui ci troviamo ad essere sempre più confusi quando si parla di politica, soprattutto internazionale. I dibattiti televisivi di certo non aiutano, al contrario: disorientano e seminano ulteriori discordie. È per questo che la seconda parola che viene in mente alla fine della lettura è: dialogo. Non credo sia un caso che il trattato della Ascani inizi con la parola “dibattito” e termini proprio con la parola, appunto, “dialogo”.

L’approfondimento nasce proprio dalla necessità di fare ordine su quanto concerne questa tematica. Necessità non solo dell’Autrice, ma di tutti i cittadini, eletti ed elettori che siano, anche perché spesso sono proprio i primi a creare confusioni e a non parlare la stessa lingua (non ci si deve sorprendere poi se non si riesce a cavare un ragno dal buco). Il termine accountability è infatti oggi utilizzato in modo fuorviante, sostiene la Ascani, a causa di processi di sostituzione terminologica che finiscono per operare una trasformazione semantica. Lo dimostra la denunciata “incommensurabilità terminologica” che non vuole traduzione, che non PUO’ essere tradotta (non esiste un equivalente nelle lingue romanze, né in quelle del Nord e dell’Est Europa, forse solo nella lingua giapponese).

Il principale obiettivo di questo processo è creare un ponte tra il potere e la libertà, tra la necessità di un governo efficiente ed efficace e la vocazione dell’uomo alla libertà. L’Autrice pone l’accento sulla dimensione relazionale del concetto, in quanto – come evidenziato nella stessa prefazione a cura di Michele Nicoletti – “il potere nasce dalla relazione ma sembra sfuggire ad essa”, nel momento in cui i procedimenti decisionali ed esecutivi sfuggono alla comprensione e alla stessa conoscenza del cittadino, nel momento in cui divengono “opachi” – a scapito della necessità di “trasparenza”, rivendicata dalla stessa Ascani sostenitrice di politiche cristalline – fino a far sì che ognuno di noi non senta più di essere rappresentato dai propri rappresentanti. Si tratterebbe di delegare, attraverso quello che Locke (tra i primi teorici della legittimazione del potere) chiamava “consenso”, chi poi tale consenso lo perde con la propria condotta. Altro accento posto dal saggio è proprio la forma rappresentativa della democrazia, in un’epoca segnata proprio dalla sua crisi, in un panorama abitato da conflitti tra spinte particolaristiche – come quelle delle lobby – e globalizzazione – che fomenterebbe un sempre crescente astensionismo dalla vita politica a partire dalle stesse elezioni (le statistiche di affluenza ai seggi parlano da sé). Certamente le leggi elettorali non aiutano ad alimentare quel dialogo di cui parlavamo sopra, dialogo tra il rappresentante e il rappresentato, tra l’eletto e l’elettore, aspetto su cui la Ascani sofferma la sua attenzione nell’approfondire la dimensione più prettamente politica – ed elettorale – del concetto di accountability, le cui sfaccettature sono molteplici, e tutte approfondite con la stessa “trasparenza” chiesta alla politica.

Il volume ripercorre la storia del termine e poi quella del concetto, ritrovandone tracce storiche, seppur al livello embrionale, addirittura nel Codice di Hammurabi, nell’Alto Regno dell’Antico Egitto – in sistemi di controllo della qualità del lavoro attraverso la redazione da parte di scriba di puntuali ed accurati rendiconti – e poi nell’Atene democratica del V secolo a. C. – con controlli precedenti, contemporanei e posteriori ai mandati di tutte le cariche, che fossero legittimate da sorteggi o da nomine. Qui si poteva anche chiedere il voto di fiducia quando qualcuno denunciava un’irregolarità. Ma vorrei condividere quelle che erano soprattutto le sanzioni! “Se fosse stata confermata l’accusa di appropriazione indebita, il magistrato ritenuto colpevole avrebbe dovuto restituire dieci volte la somma in questione, mentre se si trattava di sanzionare una cattiva gestione, la pena era ridotta a due volte la quantità del denaro mal amministrato”. Capirete che il nostro Paese sarebbe stato ad oggi il più fiorente d’Europa! Ma non è finita qui. Ci sono anche aspetti non prettamente finanziari ad essere sanzionati. “Se fosse stata provata una qualche forma di scorrettezza nella sua condotta pubblica, allora egli sarebbe stato privato dei diritti di cittadinanza, non avrebbe più potuto parlare in pubblico, gli sarebbe stato proibito di viaggiare, di vendere o comprare una proprietà e, addirittura, di praticare sacrifici e fare offerte religiose”. Concordi sul trascurare quest’ultimo dettaglio oggi anacronistico, dedurremo che molta pulizia verrebbe continuamente fatta in qualsiasi affare pubblico. Ma la reciprocità del controllo voleva che non fossero soltanto i ministri ad essere sottoposti a dinamiche di check and balances, perché anche all’interno dell’Assemblea (l’ekklesìa), massima espressione del potere del popolo, potevano esserci contestazioni causate da proposte ritenute illegali.

Soprattutto quest’ultima esperienza storica e umana, tuttavia, nonostante le tante lezioni, ci insegna come la “democrazia diretta” sia un’illusione storica perché finisce per sfociare nel dispotismo del popolo, unaccountable quanto lo è un re come Giovanni “Senzaterra” in epoca Medievale. Quest’ultimo è un altro pezzo di Storia importante nel percorso verso la democrazia e il concetto diaccountability. Fu l’ultimatum che a questi fu posto dai baroni che portò all’emanazione della Magna Charta Libertatum. Giovanni, infatti, non era certo suo fratello Riccardo “Cuor di Leone”! Questo episodio ha inaugurato il “diritto di resistenza […] al potere politico, quando esso non adempie ai suoi compiti e abusi delle sue prerogative”. Secondo i più autorevoli studiosi, non vi sarebbe alcuna differenza tra i dictatum del popolo e quelli del re, poiché sempre di dictatum si tratta.

Ciò che quindi renderebbe una democrazia realmente tale è la sua forma rappresentativa, che può espletarsi realmente solo se non viene ucciso l’accountability. Quest’ultimo è “legittimazione sociale”, da distinguersi da tutte le altre forme di legittimazione formale (dal basso, orizzontale, processuale) effettivamente presenti nella politica italiana ed europea – a dispetto della disinformazione – che però mancano della “capacità da parte dei cittadini di riconoscersi nell’istituzione europea”. “Ce lo chiede l’Europa” diviene un motto funzionale all’individuazione di un capro espiatorio o di un demone persecutore, utile alla fortificazione delle politiche nazionali ma a scapito di una partecipazione del cittadino all’informazione e alla comprensione. Nessuno sa tutto ciò che avviene davvero a quel livello e le dinamiche del consenso elettorale fanno sì che le autorità nazionali non approfondiscano. “Data la mancanza di un’arena comunicativa unica […] è necessario che siano i rappresentanti politici eletti negli Stati membri a spiegare che cos’è l’Unione Europea, che cosa sta facendo e, soprattutto, perché. Il problema, però è che […] le ferree dinamiche del consenso sconsigliano di occuparsi di simili questioni”. Si preferisce parlare per motti e per slogan, nelle reciproche illusioni che tutto sia magico. L’astensionismo quindi sarebbe spiegabile con una percezione di totale mancanza di controllo, che finisce per uccidere la democrazia proprio perché è qui che si polverizza l’accountability. Perché votare per qualcosa di cui non si ha la più pallida idea di come funzioni? Sarebbe inutile continuare a risolvere la crisi, economica e della rappresentanza, se non si ripristinasse la base del senso pieno di cittadinanza, che è data dai “meccanismi di domanda, argomentazione/giustificazione e controllo”.

 Attenzione, perché è proprio questa la definizione del concetto che la Ascani indaga, che garantirebbe un “controllo reciproco” al livello orizzontale, cioè tra gli organi istituzionali come avviene nel sistema democratico statunitense, e verticale, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. Essere accountable vuol dire “prendere in conto” durante le indagini le istanze di chi conferisce legittimità al proprio potere (che siano i cittadini che votano o un leader che sceglie la sua segreteria), “tener conto” di esse durante le decisioni (operare, dunque, in virtù e in vista di quanto emerso e non con il fine di portare acqua al proprio mulino), “render conto” alla fine del proprio operato attraverso dovute e trasparenti argomentazioni/giustificazioni (provare di aver operato realmente negli interessi dei rappresentati).  Ciò vuole garantire il diritto di domandare spiegazioni circa la condotta di qualcuno e il dovere di fornirle. Le tre parole d’ordine:partecipazionevisibilità, mutualità. I tre strumenti per realizzarle: periodica verifica del consenso (elezioni), trasparenza dei media – il che meriterebbe un discorso a parte! – referendum. È nella “condivisione dei poteri” – piuttosto che nella divisione di essi – che si alimenta la democrazia. E’ questa la politica USA, figlia di quel dibattito tra federalisti e antifederalisti iniziato ai tempi della Convenzione di Filadelfia che avrebbe portato alla Costituzione federale, nel lontano Settecento, che cercava di indagare come i rappresentanti potessero dipendere il più possibile dai rappresentati, se fosse più efficace la formula del decentramento dell’autorità o  quella della concentrazione dei poteri. In sostanza, “le due parti avevano opinioni diverse su quale fosse la giusta distanza” tra gli eletti e gli elettori al fine di assicurare accountability.

E le figure non elette ma legittimate da nomine (i famosi “tecnici”)? La Ascani indaga con spirito critico anche questo aspetto, in un’era in cui si sente il peso dei residui di quella forma di funzionamento della macchina statale come fosse un’azienda privata (la New Public Management degli anni ’80, già fallita, anche se non tutti lo hanno compreso), adeguandosi dunque alle leggi che regolamentano il mercato come se la politica fosse solo finanza (e come se il benessere di una popolazione si potesse dedurre dal PIL, mito, peraltro, sfatato). L’iper-decentralizzazione mina la possibilità di attuare quei controlli reciproci che assicurerebbe correttezza della prassi e trasparenza (publicy accountability). La NPM è stata nel tempo sostituita dalla PVT (Public Value Theory) che individuava un nuovo valore, quello pubblico, consistente nel capitale sociale, nell’identità culturale, nel valore ecologico, nel benessere individuale e collettivo, etc., introducendo, cioè, innovazioni senza tuttavia risolvere il problema moderno dell’accountability. Il dibattito odierno non dà tregue, ma è riassunto nelle parole di Vilfredo Pareto, che la Ascani ripropone: “Si può peccare per ignoranza, ma si può anche peccare per interesse. La competenza tecnica può far evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo”.

È riproposta una ironica ma esemplificativa definizione di quella che è oggi per il cittadino l’Unione Europea: “oggetto politico non identificato”. Occorrerebbe, invece, riflettere maggiormente su quanto realmente non ha nessuna legittimazione democratica: il mercato globale.

GIULIA SOTTILE